17 dicembre 2013

Ego-metabolico.

Ecco che la scienza toglie ancora una volta un po' di poesia alla vita.
Ipoglicemia reattiva. Due vocaboli più o meno comprensibili che racchiudono un tratto apparentemente essenziale del mio carattere...
"Tu hai fame Cirillino" forte di questa marmorea diagnosi, la dottoressa mamma ha studiato e curato il figlio da anni di mal di testa, stanchezza e malumori. "È come il su nonno: a stomaco voto diventa anche cattivo"...e giù vagonate di cibo a tavola.
Da quando mi ricordo, gli orari di casa sono sempre stati scanditi dagli insostenibili orari di lavoro dei miei: pranzo alle 2 - a volte anche 2 e 30 - e cena dopo le 9. Non ho mai fatto colazione e vista la lontananza dei pasti, ho sempre pensato che fosse normale avere perennemente fame.
Ero un bambino sostanzialmente grasso, ma sono stato aiutato da una crescita esplosiva e precoce, che mi regalò già a 13 anni la struttura fine che mi porto dietro tutt'oggi (peccato che dopo la pubertà i vari Andreino o Marchino siano diventati due volte e mezzo me.)
Da che dimagrii, ho cominciato a sviluppare una peculiare attitudine verso il cibo: se da un lato posso stare anche 24 ore a digiuno senza morsi di fame o capogiri, dall'altra ci sono orari durante la giornata in cui il mondo e le persone appaiono sempre più irritanti. In quei momenti la ricerca del cibo può diventare ossessiva, e vi assicuro che quando un Biagini ha fame, non è un bello spettacolo. La sazietà è un concetto poco inerente a questa sensazione: si mangia perché c'è cibo, si mangia finché c'è cibo. Poco contano i pantaloni che stringono e la pancia in tensione, se vediamo altra roba da mangiare, non riusciamo a fermarci.
Non c'è da stupirsi se la Sonia davanti a tanto famelico spettacolo, si prodigasse di cucinare mille e più ricette, con porzioni francamente abnormi per la stazza e la decenza della mia persona. La fame ha per anni fornito ai miei la spiegazione di ogni sottile moto del mio umore - francamente lunatico fin dalla tenera età e caratterizzato da oscillazioni circadiane tra bambino iperattivo e marmocchio melanconico, ovviamente poi aggravate da un'adolescenza tumultuosa, come quella di tutti. 

"Non rompere i coglioni Cirillo, tu hai fame": Risposta classica ad ogni mio esposto
"Un tu hai nulla, mangia un biscottino vai, tu hai fame": Diagnosi onnicomprensiva di ogni mio malditesta/malessere
"Sie, ma lo vedi c'è il termosifone a 15! Mangia di più bischero, lo vedi come tu sei magro!": Universale soluzione al mio avere freddo in casa.

Insomma per anni mi sono sentito dare del l'affamato per ogni mia uscita...il fatto è che anche io ho finito col crederci, sforzandomi - ora che vivo da solo - di sopportare questa quotidiana guerra di sensazioni intestine. Lasciatemi dire che però, nel frattempo, i miei sbalzi di umore costanti hanno prodotto alcune tra le cose più belle che ho mai fatto. In questa chiave, il blog è più o meno un monumento alla mia voracità.

Sveliamo l'arcano: soffro - se così si può dire - di una disregolazione metabolica per cui dopo mangiato, gli zuccheri nel sangue scendono troppo velocemente, raggiungendo valori a cui normalmente un individuo sviene. In pratica il mio pancreas risponde troppo velocemente al glucosio contenuto nei pasti, rilasciando grandi quantità di insulina - l'ormone che permette il riassorbimento dello zucchero nelle cellule - abbassando la glicemia in maniera esplosiva. Ipoglicemia reattiva, appunto. Il fatto che io non svenga con 45 mg/dl di glicemia, è perché questa è la mia condizione di normalità pomeridiana da anni.

Eccovi spiegati gli eccessi di pessimismo, i mal di testa, il nervoso, l'irrequietezza. Francesco è agitato, Francesco è depresso, Francesco è ipercritico.
Francesco vi invita a non mangiare un paio di giorni (e comunque non avrete la mia glicemia) e poi ragionare.
Il lato più diabolico della faccenda è che il trigger - o grilletto, per i meno anglofoni - di questa ipoglicemia è proprio il pasto! Quindi ricapitolando, io:
  1. ho fame
  2. mangio
  3. la glicemia scende dopo 2 ore
  4. mi deprimo
  5. ho sonno, freddo, mal di testa, talvolta tremore - e soprattutto mi girano i coglioni -
  6. e poi ho di nuovo una fame bestia (l'insulina ha un grande potere oressizzante). 
Nella sua innocenza materna la Sonia aveva trovato la soluzione al problema: mangiare di continuo; consiglio che, se non fosse per i rischi legati all'obesità (già perché l'insulina fa anche ingrassare), sarebbe anche praticabile: se io rimangio prima che la glicemia scenda, posso prevenire i sintomi.
Io, più semplicemente, non mangio - o meglio - mangio il minor numero di volte al giorno. So che può suonare un po' drastico, addirittura un filo psichiatrico ma - cercate di capirmi - se non mangio, io sto proprio bene: sono allegro, alla mano, vivace, ho energie per 12, ho voglia di gente, di donne, di amici, di vivere insomma. Mi limito a fare un bella cena, così la glicemia scende mentre la stanchezza sale e io me ne vado beato beato a dormire. Il problema delle serate fuori non si pone visto che tanto agli aperitivi non si mangia una sega e che altrimenti mi limito a bere (ovviamente acqua). Fatela voi una bella colazione per poi trovarvi mezzo accasciato e sfavato a metà mattina!

Credo sia inutile precisare che, al solito, la soluzione della Sonia sarebbe quella giusta.

L'ipoglicemia reattiva è un fattore di rischio per il diabete, che praticamente ne è l'esatto opposto (la medicina è paradossale e ironica, a volte), ma la cosa non mi terrorizza: in casa mia il diabete è ospite antico, e buon sangue non mente.
No, la cosa che mi strugge è il trovare che il mio modo di fare sia il frutto di un qualche organo scazzato. Possibile che il mio modo di essere Francesco - o Biagio - non dipenda da me e dal mio cervello ma da un metabolismo glicemico alterato? La domanda forse è stupida, ma la risposta è sicuramente triste. Triste sì, perché alla fine l'unica cosa che mi distingue da voi e da chiunque altro è il mio carattere: è quello che facciamo che conta, la listina della spesa degli aggettivi che potete avvicinare al nome di chiunque, è tanto sfiziosa quanto inutile. Cosa sono io allora? Un'ipoglicemia reattiva che trova ispirazione per pensare e scrivere da un malessere glucidico?
Allo stesso modo, mi irrita pensare alla malattia psichiatrica. Che cos'è un medico per dire che un cervello che gira in una determinata maniera è malato? Il concetto di normalità e di malattia quando si parla dell'interiorità di un individuo dovrebbe essere rivisto, se non del tutto abbandonato. Test psicometrici e imaging funzionali non ti diranno mai se una persona è malata, eppure è così che la facciamo sentire. Dubito che ad un check-up John Lennon - così come Ian Curtis, Einstein e chi più ne ha più ne metta - sarebbe risultato sano, ossia normale.

Tutto questo per dire che io della mia ipoglicemia reattiva me ne frego e che anzi, alla fine mi ci sono quasi affezionato. E ve lo dico mentre sono ancora qui a fare il test da carico del glucosio a 5 h, colle dita bucherellate dagli stick glicemici e la glicemia in lenta risalita da 54 mg/dl.
Vi saluto.

17 novembre 2013

Ciao

Non so se è l'ultimo, ma di sicuro è un saluto. (Grazie al cazzo dirai tu).
Passavo di qui a vedere che succede, e sinceramente non ci capisco molto.
Volevo raccontarti come sto e che cosa faccio dalla mattina alla sera, ma non ci riesco. Forse non ne ho solo voglia. Ti posso dire che la vita scorre veloce, e così come l'acqua, non ha il tempo di diventare torbida. Spero tu sia felice di sapermi contento e allegro...lo so, l'umore è una cosa volubile - forse addirittura volatile - però fa sempre piacere quando è leggero, no?
Se essere bambini significa trovare la curiosità dell'ultimo filo d'erba, allora credo che invecchiare sia voltarsi in giro e non vedere che strade conosciute, anche solo per sentito dire. Te lo confesso, mi sento vecchio (no, non è per via dei capelli). Tutto sommato, però, il circondarsi di facce e case familiari è tranquillizzante, anche piacevole - per quanto noioso.
Ora che ho finito l'università, direi che la scuola non sia stata in grado di fornirmi una buona chiave di lettura delle cose. Non è adatta a comprendere l'impalcatura su cui si regge questa confusione che noi chiamiamo il mondo: non avevo 20 anni quando ho rinunciato al tentare di dare un ordine al caos, perdendo la mia fede in Dio o in chi per lui, mentre altri - altri come te - sanno sempre perché il cielo è blu e la gente muore (o forse non se lo chiedono e basta). Eppure non passa giorno senza gustare il sapore amaro del "sarebbe giusto così" o del "non ci voglio credere"; col risultato che poi sono io quello che tira il sipario sul mondo...almeno finché non mi ricordo che il bene o la giustizia sono idee nate da questo lato della tenda e che se hanno un briciolo di valore, questo deriva da quello che faccio. E poi mi ricordo anche che io non sono uno stinco di santo e ricomincio a fare il coglione.
Continuo a recitare la mia parte, così come so fare, nel modo che ho imparato essere il più redditizio (che non fa rima con felice); questo vale per lo studio, il lavoro, gli amici e - perché no? - anche per le donne. Sinceramente vorrei sentirmi un po' più pischello (il che probabilmente è una prova del fatto che lo sia). La voglia di viaggiare e scoprire è tutt'altro che sopita, però d'altronde le giornate sono lunghe e piene. Per riprendere l'immagine dell'acqua, ti dico che ho come l'impressione che tutto mi scorra addosso, senza riuscire davvero bagnarmi.
Vorrei saper fare meglio.

Questa canzone me la regalò un'amica francese dopo una festa in via Verdi 13, proprio come quella di settimana scorsa. È la colonna sonora di questi giorni.



21 ottobre 2013

Fine


Perso nella foresta di ombrelli gocciolanti, uno sguardo intimorito lampeggia da dietro un impermeabile nero. In mezzo al fumo della sigaretta, Firenze si stringe sotto i tendoni del bar della stazione. Avete mai notato lo sforzo comune con cui cerchiamo di non incontrare gli occhi altrui? La solitudine di queste mattine è disarmante, specie nella pioggia che affolla i bus.

Finalmente il mondo torna a rallentare; riprendo fiato proprio sul traguardo. Con tutta la benzina che ho ingerito in queste settimane credevo non sarei più riuscito a frenare...
Riaffiorano i rumori e con loro la melodia sommessa dei pensieri. Questa è una di quelle canzoni che aiuta gli ingranaggi del cervello a riprendere il loro moto.

Non sono mai andato così veloce. Rush finale - il nome del gruppo di medicina del sesto - ha assunto un significato del tutto originale. Da qualche parte qui dentro c'è stata un'esplosione di rabbia e fame, divenute nel tempo bisogno di vita e contatto fisico. Sono stremato. Queste non sono lacrime di coccodrillo. Mi sento come di ritorno da un viaggio di anni, conclusosi in appena due mesi: coperto di polvere e con tante foto sfocate in valigia. Adesso dormo cinque ore a notte di media, trascorrendo le altre cercando di scrollarmi di dosso i problemi di sempre, arricchiti da rimorsi e delusioni tutt'altro che digerite. Devo dire che in fondo desideravo questo momento. La fine.

Non credevo di essere orgoglioso o egoista, non in questa misura almeno.
Oggi si laureano due dei miei compagni più importanti, un temporale accompagna la loro incoronazione, e già mi manca la loro amicizia. Il mio quotidiano si sta sgretolando alla velocità di una sessione di laurea...

3 ottobre 2013

Tesi: Ringraziamenti

È difficile trovare posto in poche righe a tutti coloro che probabilmente se ne sono guadagnati un pezzo, in tutti questi anni. Quelle poche persone che non posso evitare di citare sono il chiarissimo professor Niccolò Marchionni e il Dottor Andrea Ungar, che mi hanno accolto all'improvviso in una brutta giornata di Marzo, mentre sbandavo mestamente in mezzo alla confusione che la scelta di una specializzazione suscita.

La riconoscenza più profonda va però alla mia famiglia: anzitutto perché senza il sostentamento economico e il supporto logistico da loro fornito, semplicemente non mi sarei potuto laureare. Mamma, Babbo e Federico: vi amo. Non per quello che fate e non per quello che dite, ma perché siamo quattro creature in costante conflitto reciproco e con il mondo, e non di meno ci facciamo compagnia e forza, seppur non dividendo sempre lo stesso tetto. Abbracciato dall'ombra delle vostre figure sono cresciuto e continuo a muovermi; e proprio quando la tenera coperta ha iniziato a scivolare, tirata giù dal peso degli anni e dei problemi che dobbiamo affrontare, ho provato sulla mia pelle cosa significhi soffrire. Siete la mia riserva energetica, la centrale elettrica che alimenta il mio spirito, e non lascerò mai che vi esaurite. Vi ringrazio per avermi lasciato libero, e ancora di più per avermi insegnato il significato di tale termine.

Non mi dilungherò nel menzionare gli infiniti compagni di viaggio che hanno colorato la vita di questi sei anni, i più intensi della mia esistenza. Permettetemi però di ringraziare in modo particolare quelle persone che, costantemente, mi hanno fatto sentire un pesce fuor d'acqua tra i corridoi di Careggi: la vostra ansia contagiosa, la vostra innata capacità di ingigantire i problemi dello studio o del vivere quotidiano e l'incredibile naturalezza con cui avete abbandonato ogni carattere vi rendesse unici, in nome del bene superiore della medicina, mi hanno aiutato a diventare chi sono, e soprattutto ad andarne fiero. Mi avete insegnato che le persone si valutano sulla base di quante ore studiano, di quanto sono disposti a sacrificare di sé stessi: la mia interpretazione della lezione è, però, diametralmente opposta alla vostra. Nello scontro naturale mi avete ferito e plasmato, e se oggi, guardandomi alle spalle, un sorriso sincero nasce sulle labbra, è a voi più che a ogni altro che devo la mia gratitudine.

Per ultimo ringrazio mio nonno. Purtroppo non è qui tra voi a poter assistere al coronamento dei miei studi, in compenso però il suo sangue e il suo cuore riempiono ancora oggi il mio petto mentre scrivo queste sciocchezze. Grazie dell'attenzione e perdonate lo sfogo, nonché la malcelata soddisfazione.

21 settembre 2013

The Royal Tenenbaums

ATTENZIONE SPOILER: la seguente recensione svela particolari della trama. 
Se siete interessati alla visione del film, fatelo prima di leggere.
Se non siete interessati, prima leggete e poi andate comunque a noleggiare il dvd.
Se avete già visto il film e vi ha fatto cagare, date libero sfogo alle offese.
Una perla. Wes Anderson crea fin dai primi 30 secondi una cornice perfetta, dipingendo una casa delle bambole dove si muovono personaggi magistralmente caratterizzati, al tempo di una colonna sonora cucita su misura per ogni inquadratura. In questa pellicola c'è tutto: affetto, odio, depressione, droga, funerali, cani, tute dell'Adidas e dolcezza - tanta dolcezza. Una commedia che fa ridere sottovoce, senza volgarità e senza disturbare il vicino...e non sono molti i film che possono vantare tanto.
E' la storia di una famiglia speciale, composta da dieci bizzarre creature e tenuta assieme da 22 anni di tradimenti, litigi, incomprensioni e fallimenti - nonché dall'amore di una mamma ingrigita.
Da una parte sta Royal Tenenbaum, un padre deplorevole nella sua infinita bastardaggine,che si strugge nel tentativo di riconquistare l'amore dei figli e della splendida moglie, anche se spinto più dal capriccio che da un reale sentimento: è un bugiardo patentato che ricorre ai più meschini dei trucchi per raggiungere i suoi scopi, finendo però con lo scoprire un amore sincero verso i suoi cari - seppur fallendo miseramente nella sua impresa. Dall'altra ci sono i giovani Tenenbaum, in cui genialità e stupidità s'intrecciano formando un arcobaleno di caratteri che abbraccia quasi tutte le persone del pianeta. Il maggiore è Chas, un vedovo nevrotico che non riesce a piangere la recente perdita, ridotto a sfogarsi nell'ossessivo affetto per i figli, sue fotocopie sputate - stile Mini Me - e nell'inspiegabile disprezzo per il proprio cane. Viene quindi il dolce Richie, tennista profondo e sensibile, appassionato pittore e ritrattista dal dubbio talento, che gira per il mondo cercando di guarire dalle pene di un amore poco ortodosso. Ed infine la figlia adottiva Margot: un mistero biondo e maledetto che nasconde una drammaturga libertina colpita dal blocco dello scrittore, nonché da un velo di depressione.
Adoro questo film, è inutile nasconderlo...nel rivederlo decine e decine di volte, prima di dormire, si scoprono quei particolari sottili che il regista ha nascosto con cura maniacale nei ritratti appesi al muro, nei trofei in camera di Richie, nei taxi inspiegabilmente malconci - gipsy cabs - o nelle pagine dei libri che annunciano i capitoli della storia.
Un cast d'eccezione impreziosisce il tutto: l'inossidabile Gene Hackman interpreta il pater familiae, sfoggiando una sorprendente interpretazione comica, che lo rende degno protagonista e fulcro di tutta la pellicola; viene poi la splendida Anjelica Huston, non a caso eletta a musa ispiratrice di Wes Anderson, che intrepeta Etheline Tenenbaum ossia la quintessenza della maternità e della femminilità; Gwyneth Paltrow, Ben Stiller e Luke Wilson, sono invece tre giovani rampolli di cui sopra; in particolare quest'ultimo - oltre ad essere co-autore della sceneggiatura - risulta assolutamente indimenticabile nella sua tenerezza; infine Owen Wilson e Bill Murray - altra costante delle commedie del regista americano - concludono il quadretto familiare con la loro stravanganza genuina.
Una scena su tante: l'incontro tra Richie e Margot alla stazione dell'autobus.
In buona sostanza, si tratta di uno dei miei film preferiti: il voto è chiaramente 10, anche se non credo di poter essere molto oggettivo.

16 settembre 2013

Firenze

Com'è dolce il vento che scivola sul ponte,
quando un paio di shorts solletica l'acume,
portando le note stonate, di risate bionde.
Selve di persiane si specchiano nel fiume,
chiudendo allo sguardo spiragli affrescati:
una bimba che colla luce accesa, dorme,
quasi della notte buia temesse gli agguati.

Squadroni scalcianti di silenziosi motorini
attendono il risveglio dei rispettivi fantini
mentre dame bianche ti salutano per la via
appese a una facciata nella loro cortesia.
Gattonando verso casa, non sei mai solo:
di un canto e un vicolo pestando il suolo,
discorsi sconnessi e rose senza profumo,
ronzano alla luce del bar, in mezzo al fumo.

Bicchieri di plastica, scherzi e minigonne,
sembrano petali dischiudersi alle tenebre
rivelando la freschezza del Giglio insonne.
Dimenticando il tempo, risplende celebre:
nell'austerità serena, ti abbraccia eterna,
cullato dalla cupola, che veglia materna.

Colla sigaretta in mano, invecchi tu solo,
perso a rimirar tanta bellezza col tuo volo.

13 settembre 2013

L'amour - pt. 6

(Continua da qui)
Alla fine di un'estate, Luca si trovò da solo col suo tempo per la prima volta negli ultimi anni. Ripassava nella mente le ragazze che lo avevano accompagnato nel suo lungo cammino universitario, immaginandone i volti. Non li contava più. Non perché fossero troppi, ma perché ormai conosceva bene la stupidità che si cela nel farlo. Li scorreva veloci, senza soffermarsi su alcuno: quasi non li distingueva. Molti avevano perso gli occhi, altri la bocca...qualcuno anche il nome. Nel rendersene conto si rattristò un po'.
Un equilibrio precario, mantenuto con grandi mazzate alla botte - di vino, birra e vodka - e con tremendi colpi al cerchio, fatto di infiniti pomeriggi piegato sui libri, lo aveva sostanzialmente tenuto in piedi nelle sue scarpe fino ad allora. Non era felice...tranquillo, forse addirittura sereno, ma non felice. Una volta l'aveva conosciuta, la felicità, forse anche due. Ma era sempre stata destinata a finire. Non esisteva il per sempre.
Ripensando con rammarico alle occasioni perdute, si crogiolava un po' nelle esperienze dei semestri trascorsi. Dalla prima meraviglia che aveva provato toccando il corpo morbido di Elena, aveva vissuto altre innumerevoli sorprese e avventure. Non aveva mai smesso di ricercare quel tremito leggero che si prova avvolti tra due gambe vellutate, con le unghie conficcate nella schiena. Un attimo. Il circuito del piacere si libera vibrante, rilasciando gocce di felicità da qualche parte dentro la testa, che rapide come un fulmine pervadono il ventre e tutto il corpo in un'abbraccio purificante. Nessun pensiero. Nessun rimorso.
"In amor vince chi fugge" - anche se forse amore poi non era: aveva imparato presto come avere quello che voleva dalle ragazze, e con un cuore infreddolito e non più disposto a lasciarsi ghermire, non faticava a dimostrare l'eterna verità del detto antico. Fare l'amore e fare all'amore, erano due sottili sfumature letterarie che nella sua testa occupavano stanze lontane: la gioia del sesso non riempiva il petto come il sentimento che un tempo lo attanagliava, né poteva sostituirsi ad esso. Era come paragonare una stella cadente all'estate - un fulmineo desiderio al costante calore del sole. Eppure da che l'estate era finita, non faceva altro che girare nelle notti col naso all'insù, scrutando il cielo attraverso il fondo di un bicchiere che si vuotava. Aveva freddo.

Seduto sullo stesso divano, dischiudeva di nuovo gli occhi dal sogno di quel bacio, ormai invecchiato ma non meno splendente. Pochi giorni dopo avrebbe finalmente provato il segreto sapore di lei. Ricordava come la sicurezza di quel giorno fatidico si squagliò in una notte, la cui fiamma bruciava ancora, nonostante le cicatrici fossero adesso raggrinzite e pallide. L'aveva trascinata nel suo letto d'infanzia, stringendone la mano come quando giocavano da bambini. Riviveva la paura, che come un fantasma, era tornata ad infestare le sue spalle goffamente impegnate a stringere quel corpicino delicato. Sentiva ancora la pressione salire tra le tempie, sotto il peso di pensieri sciocchi: per lo più paragoni con amanti migliori che lo fecero sentire piccolo piccolo. Non era pronto. All'epoca non sapeva quante volte avrebbe voluto rivivere quella notte con lei, ricco delle esperienze che sarebbero venute poi. Adesso rivedeva con nostalgica timidezza quel Luca ragazzo, che arrossiva e tremava mentre cercava di essere un uomo. Anche lei non era pronta. Quei ciuffi dorati che suggerivano l'amore tenero delle favole, giacevano immobili sul materasso colorato. Nelle labbra rosa dove aveva sempre sognato un tiepido paradiso, non aveva trovato nessun agognato conforto. Quando lei scoprì il seno e si sfilò il lungo vestitino chiaro, la sua figura algida lo paralizzò per tanta fragilità e insicurezza. Mossi dall'impeto del più strano periodo delle loro giovani esistenze, si erano trovati nudi l'uno di fronte all'altra, senza sapere bene il perché. Rivedeva tra le efelidi castane quel sorriso triste, che interrogativo cercava il bacio di lui. Non aveva mai provato emozioni così pure e contrastanti, e forse ne sarebbe stato impossibile il ripetersi. Non bastò il corpo di seta che lo sfiorava a smuoverlo da quel blocco. Le sue braccia si muovevano spente mentre le afferrava i fianchi e il seno. Con la testa rapita nel suo mondo di paura, Luca non aveva vissuto quel momento. L'aveva baciata meccanicamente e, ancora tremante, aveva congiunto il suo corpo a quello di lei che lo fissava turbata. Le leggeva crescere negli occhi i dubbi che lui stesso aveva. Rivedendo nella memoria i due corpi che si avvitavano insicuri, Luca adesso gridava di fermarsi, di non rovinare tutto, di non gettare al vento un tesoro cui aveva dato mille nomi, senza ancora trovarne uno giusto.

Ricordava il verde di lei che lo trafiggeva mentre dava fiato alle sue paure. Che hai? Non rispose. Che c'è? tacque ancora. Non ti piaccio? Non riuscì a parlare. Nuove frasi gli si strozzarono in gola, come un tempo, soffocandolo. Ho paura. Non volevo che succedesse così. Mi piaci così tanto da terrorizzarmi. Temo di non essere all'altezza di te, di Andrea. Con Elena è diverso. Con lei sono a mio agio. Vorrei che tu mi stringessi e mi dicessi che va tutto bene. Vorrei che tu sorridessi mentre facciamo l'amore...
La vide alzarsi da quel letto, cercando le sue cose, mentre continuava a chiedergli quale fosse il problema. Il volto sconvolto da una rabbia disperata e gli occhi di nuovo arrossati. Lui l'aveva accarezzata in silenzio, schiacciato dalla vergogna. Si era sentito un poppante.

Da allora erano usciti assieme altre volte. Ma non era mai più riuscito a parlarle: tutte le volte che l'aveva incontrata, per magia era tornato nudo su quel letto, a tremare per il freddo. Vergogna. Tanto grande da rendergli invisibile il frammento di felicità che, in un giorno di pioggia, aveva intravisto in mezzo alle nuvole. Per qualche mese il telefono aveva continuato a squillare, ma poi finì col non voler più rispondere. Aveva davvero rovinato tutto.
Poggiata sul cuscino accanto a lui, stava la lettera che le aveva scritto qualche tempo dopo: nel rileggere oggi quell'accozzaglia di pensieri sconnessi, di assunzioni di colpe epiche, di confessioni inverosimili e di prostrazione ingiustificata, capiva perché non avesse meritato una risposta.

Il suo sentimento, un tempo puro, aveva mutato i caratteri fino a divenire un'ossessione. Con gli anni si era chiesto se quel suo amore di ragazzo fosse degno di questo nome, ma non aveva mai trovato risposta. Infine si era chiesto come avesse potuto ritrovare la tranquillità, ritornando fra le braccia di Elena, anche se per pochi mesi soltanto. Dopo di lei erano venute tutte le altre.
Aveva reciso il legame con la sua Beatrice, o peggio, lo aveva lasciato sciogliere. Adesso si scopriva a contare i mille nomignoli che le aveva dato. Bea, Bionda, Rubia, Mostriciattolo, Scheggia...Spilla. Quest'ultimo era sempre stato il suo preferito, sapeva di acqua pulita ed allegria; non ricordava più perché aveva smesso di chiamarla così, arrivati al liceo.

Ancora seduto sul velluto azzurro, si accese un'altra sigaretta. Il grande televisore spento rifletteva la sua immagine nello specchio nero. Accanto al cimino rosso che si accendeva ad ogni boccata, non vedeva più nei propri occhi la freschezza di un tempo. Fini solchi cominciavano a piegare la carne attorno agli occhi, che si accartocciava tutta quando rideva. La barba incolta e le guance scavate non raccontavano più le mattine a rincorrere le rane o i pomeriggi distesi a capo all'insù, a dare forma alle nuvole. Ormai sapeva che chiodo schiaccia chiodo...ma anche che ci sono punte arrugginite e tanto grosse da non poter essere cavate.

Prese il telefono. Non sapendo neppure se era ancora lo stesso, compose il numero a memoria.
"Ciao Lu..." Rispose una voce allegra "...era tanto che aspettavo questa chiamata."
"Ciao Spilla..."

10 settembre 2013

Non è un paese per vecchi

ATTENZIONE SPOILER: la seguente recensione svela particolari della trama. 
Se siete interessati alla visione del film, fatelo prima di leggere. 
Se non siete interessati, prima leggete e poi andate comunque a noleggiare il dvd.
Se avete già visto il film e vi ha fatto cagare, date libero sfogo alle offese.
Si tratta di uno dei film più discussi degli ultimi anni. Per alcuni un capolavoro, per altri una cagata pazzesca - o peggio: la quint'essenza della noia. Panorami spettrali e silenzi dilaganti fanno da protagonisti in una delle pochissime pellicole volutamente senza colonna sonora. Tre personaggi si districano tra i nodi di una trama inconsistente, in un inseguimento infinito e inevitabile. Un triangolo bizzarro che collega un veterano del vietnam a l'hitman più spietato della storia del cinema e ad un poliziotto ingrigito. Tommy Lee Jones è il vecchio del titolo, uno sceriffo che sente il peso dei suoi troppi inverni in sella al cavallo. Egli non concepisce la violenza del traffico di droga che devasta il Texas degli anni '70, tanto meno la follia omicida dei primi serial killer. A mio parere è il personaggio meno riuscito, colla sua nostalgica passione che, sostanzialmente, aggiunge molto poco al nucleo del film - costituito da un duello di sguardi e stratagemmi. Filtra la realtà col suo incredulo disprezzo, che si aggiunge sicuramente a quello della platea che non ne capisce le farneticazioni.
Nell'estenuante attesa che precede lo scontro tra Llewelyn e l'inarrestabile Chigurh, ci viene presentato un sottile gioco mentale che, in definitiva, non porta a niente. Se volete, è un po' il film delle aspettative tradite; eppure è sorprendente nei suoi colpi di scena che smuovono una vicenda apparentemente lineare.
L'uniformità della storia è strettamente legata al personaggio di Javier Bardem: qualsiasi proiettile lo ferisca, o qualsiasi cosa esploda, sai sempre e comunque che lui arriverà dove deve, con in mano il suo fucile silenziato. L'attore spagnolo sfoggia una delle più grandi interpretazioni di un cattivo, valsagli un oscar sacrosanto. Tanto più se si prendono in considerazione i ruoli sdolcinati o strappa lacrime cui ci aveva abituato con Il Mare Dentro o L'Amore Ai Tempi Del Colera, e proseguiti con Vicky Cristina Barcelona. Il suo killer non ha niente di umano nello sguardo vacuo, nell'andatura ferma e leggera, nella ferocia fredda e priva di passione. E' uno squalo che insegue una sottile scia di sangue, lasciandosi dietro un mare impregnato di rosso. Il taglio di capelli da angelo, la tenuta di jeans da coglione americano, l'immancabile bombola di ossigeno - normalmente utilizzata per abbattere le vacche: ecco cosa riflettono i suoi occhi neri senza fondo, quando ti fissano: bestiame, carne da macello o poco più. Disumana è l'attenzione che mette nel non sporcarsi i piedi e la sua serenità nel far roteare in aria una moneta. "Scegli" "No. Io non voglio scegliere." "Scegli" "Non è la moneta che decide; a decidere sei tu" "Io e la moneta siamo arrivati allo stesso punto". Sovrumana è la sua ineluttabile presenza: sembra il cupo mietitore che con la falce in mano raccoglie, sempre, i mesti frutti del suo operato.
Ha delle regole. Una disciplina folle che si giustifica da sola, nella costante vittoria sui suoi avversari.

Il tratto più enigmatico del film è probabilmente il finale. Cercando su internet ho trovato più richieste di una spiegazione al riguardo...senza peraltro trovarne una convincente: apparentemente fedele alle sue regole, Chigurh si reca nella casa della vedova Moss, per mantenere fede alla tremenda promessa fatta al defunto marito. I Coen ci lasciano intuire l'accaduto dal modo con cui il killer si studia gli stivali sulla soglia di casa...eppure non sappiamo quale sia stato il risultato del lancio della monetina. Che l'infallibile Chigurh, preso in contropiede dalla reazione di lei, abbia sparato senza averla lasciata decidere? Questo forse spiegherebbe il tremendo incidente che colpisce il maniaco: un destino angustiato per questa sua mancanza - o altrimenti del tutto inspiegabile - lo ha ripagato facendo bucare un rosso ad un autista qualsiasi, fracassandogli un braccio.
La pellicola si chiude con i due sogni dello sceriffo ormai in pensione che, se messi assieme al discorso di apertura, dovrebbero giustificare il titolo del film (e del romanzo da cui è tratto). Nel primo, suo padre - anch'egli sceriffo - gli aveva prestato dei soldi che lui ha perso. Nel secondo il genitore lo precede a cavallo con una torcia in mano. Credo che l'unica interpretazione possibile sia proprio quella della mitizzazione dei bei tempi andati , che egli personifica nel padre - più volte citato durante la pellicola. Il primo è la sensazione di fallimento che prova guardando ai suoi giorni. Il secondo è la soddisfazione di aver comunque tentato di seguire le orme del padre nella sua carriera.

Voto: 8. Una trama singolare, un finale agghiacciante e il killer più figo di sempre...tre motivi più che sufficienti per guardarlo.

8 settembre 2013

L'amour - pt. 5

(continua da qui)
Erano seduti sul grande divano di velluto scuro, nel silenzio interrotto solo dal ticchettio della pioggia contro la finestra a lucernario, che proiettava un'aura grigia su tutto il soggiorno. Luca faceva fatica a tenere assieme la nuvola di pensieri che gli ingolfavano la mente. Eppure era contento. Nel riscoprire un sogno mai dimenticato, improvvisamente materializzatosi, era pervaso da un'allegria infantile. Non bastava la pioggia, il rimorso o il dispiacere a guastare il suo desiderio purissimo: si trovava dove voleva, con chi voleva. Tra quei due braccioli azzurri non c’era posto per i rasta di Andrea e per i fantasmi di un tempo; in quel pomeriggio di nubi, neppure il sorriso di Elena riusciva a filtrare. Si sentiva forte.

Beatrice sprofondava in quegli occhi chiari, faticando a scorgervi una luce familiare. Dejà vu. Nel giro di poche settimane era cambiato tutto. Andrea aveva continuato a vedersi con la sua ex per mesi, anche se non ne aveva le prove, lo indovinava con ogni sguardo. Aveva passato giorni struggendosi nell’impossibile ricerca di un modo che le riportasse, per magia, la felicità tra quelle braccia tatuate…finché, d’improvviso, venne schiacciata sotto un dilemma martellante. Come si era potuto permettere quell’idiota di tradirla? Cinque lettere che adesso risplendevano infuocate nel grigio dei suoi pensieri. Non lo riconosceva più. Cinque lettere che vedeva brillare sulla fronte in mezzo ai rasta. Idiota. E ancora stronzo, tronfio, noioso. In breve, ad avere la meglio sulla tristezza e sulla gelosia, fu il più nero disprezzo. Il suo abbraccio non trasmetteva più calore, né sapeva di avventura o profumava di cuscino sprimacciato: cretino, idiota. Aveva distrutto tutto. Nascosta dietro una tempia, un’altra vocina aveva cominciato a sussurrare. Da quanto tempo non si sentiva più viva? Erano passati mesi dall’ultima volta che aveva provato il solletico liberatorio di una risata sincera. Era successo una sera in piazza con Luca e i suoi compagni dell’università...Se chiudeva gli occhi, sentiva ancora gli scherzi dei ragazzi e gli sguardi sul suo vestito, avvertiva ancora la voglia vibrante di scoprire persone e situazioni nuove. In un momento, la visione del suo angelo seduto sui gradini, tutto allegramente perso nelle chiacchiere con Elena, la riportò nella stanza.

La odiava sotto la pelle. La cosa che più le bruciava era stata scoprirsi a immaginarlo tra le sue grinfie. Luca risplendeva di una luce nuova da allora. Era contento, lo vedeva; e sapeva che, per questo, sarebbe dovuta esserlo a sua volta. Invece aveva trovato fin da subito quel bagliore insopportabile, allergico. Aveva visto il suo angelo spiccare il volo…ed aveva finito col sentirsi sola. Erano cresciuti recitando due ruoli definiti, identici per anni; non riusciva ad accettare questa svolta, non ancora. Le mancava. Le mancava da morire. Cercava lo sguardo tenero, il silenzio eloquente e quella sensazione tutta speciale di poter dischiudere ogni sua barriera segreta, sapendo di ricevere nient’altro che sorrisi e comprensione…ma non li trovava più. Disteso lì accanto mostrava lo stesso mento volitivo di sempre, così come la fronte spaziosa e le orecchie grandi – che mille volte aveva tirato e bonariamente schernito; eppure quel volto era mutato, come se sotto la pelle glabra vi fosse uno spirito sconosciuto ad animarne la superficie. 

Ripercorrendo il giro di pensieri che già aveva solcato mille volte, Luca si accostò a Beatrice fissandola dritta negli occhi. Assaporava le parole che per anni aveva tenuto nascoste sotto il cuscino, per lasciarle uscire ogni tanto nella notte, a colorarla di verde smeraldo. “Tu non sai quante volte sono rimasto sveglio perché il cuore picchiava troppo forte sul materasso. Sono cresciuto aggrappato ad una speranza piccola: una candela che tu hai alimentato muovendo un dito o con un sorriso. Allo stesso modo, i tuoi racconti vividi dei pomeriggi di baci erano come benzina. Ma anche se coperta dalla cenere, la scintilla non ha mai smesso di brillare." sprofondò la mano nell'oro che le scendeva dietro al collo: "Finché poi arrivò Andrea…Andrea proprio non lo sopportavo. Non sapeva niente di te dall'alto della sua criniera sporca, fatta di esami bocciati e canne. Eppure tu eri felice. La tua voce incantata, che mi raccontava le avventure di quel coglione al telefono mi ha ucciso cento volte, per poi riportarmi in vita il giorno dopo con un Buongiorno Lu. Tu eri contenta ed ho finito col credere che andasse bene così...che fosse giusto così. Tu eri felice, cosa potevo chiedere di più? Non potevo…” Sapeva che il suo slancio avrebbe causato una reazione, seppur ignorandone la natura. Voleva finalmente cacciare tutto quel grigio che si era ammucchiato là dentro: il timore di un rifiuto non bastava ad arginarlo. Segretamente sperava in un trionfo di gioia…non si aspettava di vedere scendere due lacrime. “…perché ero prigioniero dei miei sentimenti, mi sono sentito uno schiavo in questo rapporto; ma ero uno schiavo contento, anche se sembra impossibile, perché se tu stavi bene, mi bastava poterti stare vicino. Non piangere, io…io ti a…” Una mano fredda e bagnata gli si piantò sulle labbra, soffocando ancora una volta quelle due fatidiche parole. “Non lo dire. Luca stai zitto.” Gli si gettò al collo, coprendolo di lacrime, sprofondando con la testa nel petto. Quella testolina bionda e singhiozzante smorzò in un attimo ogni sua velleità.

Trascorse un’ora prima che il silenzio venisse ancora interrotto. Le aveva sfiorato teneramente i capelli finché il tremolio non era cessato per lasciare posto a sospiri via via più lenti e rilassati. Senza sollevare la testa dalla comoda carezza, Beatrice riprese a parlare. “Scusa se ti ho fermato, prima.” La voce non tradiva alcuna insicurezza. “Ma devi rispondere ad una domanda. Come puoi parlare di questi sentimenti mentre ti vedi con un’altra? Non credo tu abbia pensato a questo. Non è una questione di correttezza verso di lei…sai che non mi piace. E’ una questione che riguarda te, Lu. Non dire una cosa così grande se non sei in grado di sostenerla con le tue azioni.”
Capiva quello che diceva. Già altre volte quel dubbio gli aveva solleticato la mente; tuttavia non era più disposto a tacere. Non poteva continuare ad esserle amico - e basta. Le parole scivolarono via naturali come acqua da una fonte: “Io sono innamorato di te da così tanto tempo che quasi non me lo ricordo. Prima ti amavo da ragazzo, mi sentivo schiacciato da un'emozione così grande. El…” aveva tentennato prima di dire il nome di Elena, non poteva rischiare di rovinare tutto “...lei è stata una parentesi dolce. Mi ha svelato un nuovo mondo e le sarò sempre grato per questo. Sono cresciuto. Però non ho dubbi su chi io desideri per me, non ne ho mai avuti.” Mentre le diceva, si accorse dell’insicurezza di queste ultime parole. “Io voglio te. Da sempre.” Fece per abbracciarla, afferrandole la spalla poggiata sul suo petto e ruotandole il capo per cercarne lo sguardo. "Ti amo". Immerso ancora in quel verde infinito, si sentiva sempre meno sicuro. Sperava che lei facesse qualcosa - qualsiasi cosa.
Si studiavano in silenzio, divisi da meno di trenta centimetri. “Sei uno stupido Lu. Hai rovinato tutto anche tu” in mezzo alle lentiggini balenò un sorriso equivoco. “Ma forse la stupida sono io…Non mi sono mai resa conto – o non ho mai voluto farlo – di quello che provavi per me.” Passò una mano dietro l’orecchio di Luca “Mi piace tanto il tuo nuovo sguardo”.


Era il segnale che aspettava. In un momento ogni dubbio si dissolse in un bacio che valeva venti anni di vita. Le dita intrecciate sul velluto. I respiri affannosi che si perdono in un unico fruscio. Le punte dei nasi che si sfiorano danzando da un lato all’altro. La bocca morbida e rovente che stringe il labbro inferiore in una morsa delicata per scendere sul mento e il collo. Scosse elettriche che dalla base risalgono e sottili s'insinuano dietro le orecchie, sotto i capelli. Quando Luca riaprì gli occhi, rimase accecato per un momento nella luce bianca che pioveva dal soffitto. Piano piano riprese forma quel volto fiorito: se era un sogno, non voleva svegliarsi.

Fine quinta parte

5 settembre 2013

Dio è morto.

Dio è morto: non dico niente di nuovo; è sotto gli occhi di tutti, anche se molti non riescono a vederlo. Non era così evidente quando Nietzsche lo profetizzava, infatti lui era un figo.
C'era un mondo in cui ogni uomo sapeva che non si poteva sapere tutto. La Bibbia spiegava abbastanza - o quantomeno ci provava - da poter vivere sereni; a tutto il resto ci pensava il timore di Dio. Il gregge del Signore cresceva e si moltiplicava in un recinto che dava un senso alle misure. A quel tempo grande o piccolo, bello o brutto, giusto o sbagliato, avevano caratteri precisi. Mi spiego meglio: mentre la morale cristiana - tuttora valida seppur immancabilmente inattesa - continua a definire per i credenti cosa sia il bene o il male, un tempo la fede includeva anche un concetto predefinito di grande o di piccolo, e anche di bello o di brutto, così come di vecchio o di nuovo e via dicendo. Quando la maggior parte delle persone crede qualcosa o vive come se lo facesse - che anche se non sono la stessa cosa, il risultato non cambia - le loro idee di giusto, di grosso e di rotondo, di malato e di verde, diventano concreti paragoni contro cui tutto si confronta. Con un punto di riferimento immobile e indiscutibile - in questo caso Dio - era facile dare i nomi alle cose...e ancora di più definirne le qualità. Non so dire quand'è che Esso sia venuto meno, e sinceramente il mio scopo non è scoprirlo. Fatto sta, che quando i pazzi sono diventati più numerosi dei sani,  le camice di forza hanno cambiato braccia. E' una mera questione statistica: è la vittoria del relativismo, un relativismo molto umano. Esempi: l'arca di Noè doveva essere sicuramente molto grande, per non parlare del monte del Purgatorio o dei sette cieli...però, diciamocelo, non costituiscono esattamente l'attuale esempio della possenza o della magnitudine. Allo stesso modo il diavolo o la morte devono essere molto brutti, tant'è vero che nessuno se li tatuerebbe sulle braccia o le utilizzerebbe per grafiche stampate su zaini o t-shirt (per non parlare di alcuni pazzeschi protagonisti di romanzi o film). Era un universo finito, ordinato e accessibile, attraverso la fede. C'era sempre un massimo, un migliore, un perfetto...Dio. Il mondo si è retto su queste misure certe per millenni.  Senza scadere nel banale, riflettiamo un momento su Adamo ed Eva e sul diabolico serpente. Alla luce dei ritrovamenti di Lucy (il cui nome deriva da una canzone dei Beatles, per chi non lo sapesse...e pensare che molti si arrabbiarono quando Lennon ammise che erano più famosi di Gesù!) e tutti gli altri australopitechi, credo si possa candidamente affermare che la Genesi sia una risposta sbagliata alla domanda "Da dov'è che veniamo?". Prima però non era lecito, né accettabile il porsi il quesito - e probabilmente vivevano tutti più tranquilli. Il fatto che la storia dei primi due amanti possa ancora fornire un insegnamento etico, non è argomento di discussione.

Dio è morto, e con lui tutti le altre divinità, gli ideali morali e spirituali; hanno lasciato un buco che  - seppur non sia stato riempito nel modo con cui Nietzsche auspicava - ha permesso il libero sfogo di noi esseri umani e finiti.

Ognuno di noi ha oggi la responsabilità di capire cosa sia grande o piccolo per sé stesso; tanto più quella di scoprire quale sia la propria idea di bello. Notare che responsabilità non implica che se qualcuno disattende tale richiesta, finisce dritto all'inferno. Anche l'inferno direi che è sostanzialmente morto. Credo che la responsabilità stia nel dover realizzare quello che il tuo cervello, influenzato dall'ambiente e dalla tua naturale inclinazione, ritiene essere giusto o sbagliato. Si tratta di un dovere che abbiamo verso noi stessi e la nostra natura, qualunque essa sia, pena l'infelicità - o peggio, l'indifferenza. In questo senso la morale cattolica, o buddista, o di qualsiasi altra ispirazione, non perdono di valore in senso stretto, semmai di universalità e di assolutezza in quanto non più riferibili a tutti noi. Il Vangelo resta un bellissimo esempio di virtù morale. Se tutti quanti ne seguissimo l'esempio, il mondo sarebbe un posto migliore; è ovvio anche per me che non faccio fatica a professarmi ateo. Questo infatti prescinde dal ritenere che effettivamente quel ragazzo morto sulla croce sia resuscitato o meno. Ama il prossimo tuo come Io ti ho amato - e cioè al punto di farMi ammazzare per te -, direi che non fa ancora una grinza come ragionamento.

Arriviamo adesso al punto centrale di tutto questo panegirico: chi ha riempito il buco di divina fattura? Molto semplice, la gente. Se ci fermiamo un secondo a pensare allo scopo di Facebook, delle trenta t-shirt, delle venti paia di scarpe, del diploma, del dvd del Titanic o di Pulp Fiction, dell'album degli Ac-Dc o di Britney Spears, di aver studiato 30 anni o lavorato altrettanti, di aver bevuto ettolitri di Coca-Cola o di Birra, della dieta o della palestra, del televisore da 50 pollici e della Mini Cooper...di quante possiamo giustificarne l'esistenza con un "perchè è necessario al mio modo di essere". Sembra una banalità, ma non lo è assolutamente: col mondo ci si confronta. Il non me ne frega niente di quello che gli altri pensano di me non esiste, è una cazzata. Tu sei e sarai sempre te stesso in funzione degli altri. Nell'incontro e nello scontro. Nessun uomo è un'isola. Tu non sei così perché ti ci hanno fatto, tu sei quello che fai, il modo in cui ti muovi e decidi. E questo si embrica in un gioco immenso di modelli e contatti virtuali, reali o televisivi che ti lega a tutto il resto del pianeta. Alla luce di questo appare molto difficile trovare valide scuse al fatto che sembriamo essere tutti uguali
Chi è la gente quindi? L'ambiente e la società con i suoi costumi e pregiudizi, suona un po' semplicistica come risposta. La gente è anche e soprattutto il sottile meccanismo con cui le mode e le idee si inculcano nella nostra mente...e quest'ultimo ha un nome preciso: marketing. Dio è morto, e al suo posto abbiamo eletto il consumismo più sfrenato. Un consumismo tanto materiale quanto intellettuale e spirituale. Non c'è un giudizio morale in questa mia affermazione.
Come in ogni epoca, ci sono persone capaci di sottrarsi a questo giochino diabolico, la cui personalità si esprime violentemente imponendosi sul resto della popolazione. Direi che mai come oggi ci è data quest'occasione di realizzazione come individui! Se non altro perché non rischi di finire arso vivo nel tentare...anzi, piuttosto ti staccano un assegno da qualche milione di dollari, se ci riesci. Certo, questa forma di vittoria è ben lontana dal superuomo - o Oltreuomo - tuttavia si sovrappone ad esso nella misura in cui quest'ultimo riesce a far coincidere la volontà del destino - o in questo caso della gente - con la propria.
Dobbiamo aspirare a questo? Beh se il discorso si limitasse all'imposizione sugli altri del proprio gusto musicale o nel vestirsi, probabilmente la risposta sarebbe no. Se però stessimo parlando di insegnare al mondo la propria idea di bello, o di grande, o di giusto direi che cominciamo ad avvicinarci all'obbiettivo. Galileo, Einstein, Picasso, Dalì, Gandhi e mille altri (anche se mille sono tristemente pochi) si sono avvicinati a questo. Gesù c'è indubbiamente riuscito, anche se magari la Chiesa non ha esattamente fatto propri tutti i suoi insegnamenti. In questa chiave, penso che anche figure come Hitler o Stalin abbiano raggiunto questo traguardo, seppur in un modo del tutto deplorevole e con i mezzi più abominevoli. Un ultimo esempio banale e molto limitato nel tempo ci è fornito da Steve Jobs: con le sue idee rivoluzionarie in fatto di estetica e di prestazioni, ha imposto uno standard, più o meno universalmente riconosciuto, nell'ambito dell'informatica e della telecomunicazione. Il suo iphone, a 5 anni dal suo lancio, è ancora l'incarnazione del concetto di telefono. (Un po' come Giuda col suo tradimento è stato la quinta essenza della bastardaggine per un paio di millenni...ma erano altri tempi.)

Arriviamo ora alla conclusione. Cosa implica l'assenza di un Dio - buono o cattivo che sia - che ci guidi e ci insegni dove sta il sopra e il sotto? La libertà. Anche in questa affermazione non c'è alcun giudizio etico. Un tempo si nasceva, si studiava o si lavorava, ci si sposava, si faceva dei figli, gli si costruiva una casa, si insegnava loro un mestiere e quindi si moriva nella speranza di una vita nell'Aldilà. Che si vivesse o meno secondo i dettami della religione era una scelta individuale, ma inevitabile: o si campava nel terrore dell'inferno, rigando dritto fino alla tomba, oppure si peccava bestemmiando e divertendosi. Questi sono due estremi ovviamente, ma il punto è che in entrambi i casi ci si scontrava necessariamente con un sistema definito e ordinato di regole e di precetti: l'idea di bene di stampo religioso o filosofico. O si aveva fede nel Signore e se ne seguiva il modello, o no, e se ne pagava - o godeva - le conseguenze. In un mondo ordinato secondo Dio, ossia un principio universale e perfetto, non c'erano alternative.

Oggi quasi nessuno, almeno della mia generazione, conosce più certi problemi. Magari non bestemmiamo (anche se solo per pura superstizione), così come non pecchiamo nel senso biblico del termine...eppure chi può affermare davvero che la nostra vita si esaurisca nella propria dedizione al Signore in vista di un bene superiore? Ci sono altri modelli da seguire, accettati dalla società, imposti dalla gente. Alzi la mano chi ritiene che non fornicare prima del matrimonio costituisca una buona regola di vita! V'immaginate sposarsi e poi trovarsi male a letto colla propria moglie? Assomiglia più o meno alla ricetta dell'infelicità. Il mondo dove siamo cresciuti noi non ha un recinto definito, né tanto meno un occhio che ci guarda dall'alto minaccioso. Noi non viviamo nel terrore di Dio, né sulla scia della sua promessa di una vita eterna per cui sacrificare la nostra. Certo, c'è a chi piace pensare di essere buono abbastanza per il Paradiso, e magari anche chi lo è davvero...ma ormai la loro fede ha perso quella forza di legge divina che prima sottometteva tutti quanti. Questi ultimi cristiani comunque, con una buona approssimazione, sono persone buone. E non è cosa da poco.

La libertà, intesa come l'assenza di un termine di paragone assoluto, ha un prezzo molto caro. Trovare la propria strada è diventato difficile. Messi davanti alla possibilità di scegliere qualsivoglia carriera, o donna, o canzone preferita etc. andiamo tutti più o meno in crisi. Ed ecco che scegliamo l'università basandoci più sull'idea del guadagno o del prestigio presso la gente, che sull'attenta scoperta delle nostre inclinazioni: quest'anno saranno oltre 2500 i ragazzi che affolleranno i banchi del test di medicina a Firenze, e credo sia lecito il domandarsi quanti abbiamo ricevuto il fuoco sacro di Ippocrate - e il perché il loro numero aumenti di anno in anno. Allo stesso modo il divorzio è diventata ormai una fisiologica fine di un amore. Per lo stesso motivo, belle bionde americane, che non sanno scrivere tre versi in rima, vendono milioni di copie di dischi - anche in paesi in cui nessuno capisce il testo. Mancando un idea assoluta di buono o di bello, ci si appella a qiella più condivisa - che spesso non coincide con la più condivisibile. Affidarsi alla gente è la soluzione più facile. Adesso abbiamo il Dio gente, che ovviamente di divino non ha proprio nulla. 

Ci sono però creature troppo fragili per poter sopportare questo mondo troppo grande da capire, e privo di una mappa. Anche loro tristemente crescono nel numero di anno in anno: sono quelli che chiamiamo pazzi, sciagurati, drogati, barboni, ritardati etc. Persone che non riescono a decidere per sé stessi, né a vivere secondo i costumi di una società a tratti obbiettivamente irrazionale. La dolce parabola dell'essere fighi ad ogni costo, ricchi e famosi...riscalda i cuori dei più ma chiude per sempre quelli degli altri. Non è un caso che i farmaci di gran lunga più prescritti al mondo siano ansiolitici e antidepressivi. Un tempo era la peste nera a mietere il gregge del Signore, oggi ci pensa la depressione. Ovviamente non tutte, ma buona parte di queste creature un tempo sarebbe riuscita ad avere una vita dignitosa, nel senso cattolico del termine. Il lavoro te lo trovava il babbo, la moglie te la raccomandava il prete, i figli più o meno li facevano tutti, anche perché c'era bisogno di braccia per lavorare. Sì, qui c'è un giudizio morale: la morte di Dio ha creato una selezione innaturale dei più fragili, che non sopporto. Nonostante m'ingozzi quotidianamente a questo buffet apparecchiato che è il mondo e sia quindi il meno indicato per dire certe cose, ho conosciuto sulla pelle della mia famiglia la sofferenza che crea il non riuscire a coincidere con i dettami del Dio gente. Creature interrotte, sospese in un limbo di pensieri e di sogni, sempre più impolverati col passare degli anni, costrette a ritagliarsi fette di pianeta sempre più piccole per poter stare bene. Mi rendo conto di partecipare io stesso a questo malefico gioco delle parti, essendo anch'io un pezzettino della gente. E sinceramente odio tutto questo. Non ha comunque senso il soffrirne. Semmai davvero dovrei impegnarmi per trovare il modo di cambiarla.

Siamo liberi di scegliere quello che vogliamo, e finiamo quasi sempre per farci del male o per fare come gli altri, a volte entrambe le cose. Eppure questa è la nostra occasione. Probabilmente l'ultima. 

4 settembre 2013

L'amour - pt. 4

Erano passate settimane dall'ultima telefonata con Beatrice. In diciannove anni non era mai successo che i due ragazzi si ignorassero per così tanto tempo.

Giorni prima, lavati via i segni della matita nera di Zorro, ma con i baci di Elena ancora indelebili sulla pelle, Luca era andato a casa della vicina: si presentò sulla soglia ancora stordito dalla notte alcolica e di scoperte, con il petto traboccante di un intruglio fatto di emozione e di vergogna e gli occhi infossati sotto il peso del sonno perduto.
Non ci vollero più di tre secondi alla biondina per intuire tutta la trama della notte innanzi. Con i piedi sull'ingresso e una mano appoggiata sulla maniglia, Beatrice lo squadrò da capo a piedi: "Ciao Lu, non ti trovo in grande forma se devo essere sincera...ma che hai combinato ieri sera?"
Luca distese le braccia lunghe in un movimento ampio e circolare, finendo col grattarsi la nuca mentre ammiccava un tiepido sorrisetto "Ciao Bionda. Sono stato alla festa di carnevale al Rizzoli con Davide e Michael, abbiamo raccattato una mina immensa...Ci saranno stati almeno diecimila ragazzi mascherati! C'era della gente assurda: ho visto un genio in tutina nera e con la faccia in mezzo a un cartellone enorme travestito da tessera della mensa, poi due tizi vestiti da sceicchi che compravano quelli vestiti da calciatori...allucinante! Ci siamo divertiti come dei cretini"
I lineamenti puliti si sollevarono in una smorfia divertita e sospettosa che Luca conosceva fin troppo bene, col dito puntato alla clavicola di lui mentre lo fissava con un occhiolino verde penetrante, ricominciò: "Mmm...E di ragazze invece quante ce n'era? Quante erano le indianine e le diavolette? Lu, lo sai che certe cose te le leggo negli occhi...vuota il sacco ragazzaccio"
Da che aveva lasciato la casa in centro, il suo cervello stremato e soddisfatto aveva cominciato a ronzare, cercando con crescente apprensione una risposta alla domanda sul cosa raccontare alla sua protetta. Chiudendo gli occhi sul suo cuscino, e riscoprendosi ancora immerso nel petto di Elena aveva deciso di lasciare al mattino seguente la spinosa questione. Si sentiva sporco in fondo, ma la contentezza era ancora così luminosa da rendere ogni macchia praticamente invisibile. Quando però si trovò a fronteggiare la causa di tutte le sue apprensioni, si scoprì nuovamente a tremare. Accennò balbettando a una ragazza e Beatrice, incalzandolo: "Da che era travestita Elena? Scommetto che era un'infermierina premurosa, con tanto di mini camice aderente e giarrettiera in vista..."
Luca colse una stizza nervosa attraversare il volto di lei. Ancora più imbambolato, avvertì affondare nello stomaco un morso rabbioso. "Non mi piace che tu parli di lei così. E'...è una persona fantastica."
Lo sguardo torvo e piccato di lui fu ribattuto da una mezza risata che sapeva tanto di ironia "Allora sposatela se è tanto splendida...si vede lontano un miglio che sbava per te, quella vuole divertirsi e basta! Chiedile di uscire! Vedrai, dopo due minuti te la dà!"
Le parole caddero come un masso nel fiume di pensieri che affollavano il ragazzo; delle migliaia di onde che si alzarono increspandosi, fu ancora la rabbia ad essere la più veloce: "Non ti permettere di parlare così di lei, non la conosci! Sei ingiusta! Sei cattiva! Io ero venuto qui spinto dal desiderio di condividere con te le cose belle che mi accadono, come ho fatto fin da bambino...ma adesso credo che se c'è qualcosa di infantile in tutto questo, quella sei tu." Nell'attimo esatto in cui pronunciò queste parole, sentì un vetro spaccarsi in mille schegge affilate sotto la maglietta, in mezzo ai polmoni...fissando lo sguardo sbarrato e incredulo di lei, non riuscì comunque a frenare le parole che ormai sgorgavano a fiotti dalla ferita aperta, da qualche parte là sotto. "Ieri notte ci siamo baciati, poi siamo stati a casa sua…E' stato bellissimo. Non avevo mai provato un'emozione tanto forte in tutta la mia vita."
Lentamente le labbra rosa e lucenti di Beatrice si piegarono ai lati delle guance, adesso tutte rosse; presero a tremare mentre due lacrime ne segnavano la superficie finemente maculata. "Vattene via Lu. Vai via." La porta si chiuse con un tonfo tremendo.

Il telefono squillava ancora tra le mani di Luca che fissava incredulo il nome sullo schermo. Blondie. Gli ultimi giorni erano stati per lui un'assoluta novità. Nell'anomalo silenzio dei suoi pomeriggi, mille volte aveva preso il cellulare in mano per chiamare la sua compagna storica e scusarsi...ma altrettante aveva sentito pulsare rabbiosa l'arteria al lato della fronte. Non poteva accettare che la protagonista della sua vita fosse stata così stronza. La stizza per quelle parole maligne - seppur non così infondate - annebbiava ogni altro pensiero razionale. Non si capacitava di come quella bocca perfettamente cesellata avesse potuto essere tanto crudele nel descrivere la sorgente della sua recente felicità – o che comunque non sapeva definire altrimenti. Da allora aveva continuato a lavare ogni suo dolore e rimorso con le gocce di gioia liquida che la compagnia di Elena stillava. Poi premette il tasto verde. Un singhiozzio lo sorprese al ricevitore: "Ciao Lu...ho lasciato Andrea."

Quando aprì la porta di casa, Luca si trovò davanti una visione: i capelli sconvolti e bagnati balenavano come saette d'oro nel riflesso bianco del cielo nebuloso. La pelle lattea si confondeva tra le nuvole, nell'abbraccio di un lungo maglione di lana color zaffiro a trama grossa, che pesante di pioggia le stringeva le spalle tremolanti. Le gambe sottili sbattevano freneticamente a terra per scacciare i brividi del freddo. Gli occhi arrossati dal pianto sembravano essersi appena dischiusi da una notte senza sonno, e timidi investigavano la soglia della casa nella ricerca di un riparo, mentre le lacrime si mischiavano all'acqua che cadeva - provvidenziale. Un sorriso triste accolse il cigolio del portone, inonando Luca con la sua tenerezza magica.
Una volta dentro, il ragazzo raccolse in silenzio un grande asciugamano, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quella creatura così fragilmente splendida. Asciugatasi alla bene e meglio, Beatrice notò che nel corridoio non aleggiava il familiare profumo di pizza, che segretamente aveva sognato di assaporare. Proprio nel mezzo di questi pensieri, due braccia amiche ma sconosciute le avvolsero tiepidamente il petto da dietro la testa. I due ragazzi chiusero gli occhi: un velo di lacrime tornava ad appannare la vista di Beatrice, mentre le fredde gocce intrappolate nelle sue vesti, lavavano via tutta la rabbia e la tristezza accumulate sulle iridi celesti di Luca. Uniti in questa morsa silenziosa, posarono immobili in un abbraccio senza tempo: giovani Apollo e Dafne, stremati dalla corsa bramosa, trovavano finalmente tregua anche se solo per un istante. Bastò un respiro infatti perché il cuore ricominciasse a bussare forte contro la schiena bagnata di lei.

Come avvolta nelle ali del suo angelo, Beatrice piangeva senza sapere il perché. Cullata in quella coperta di piume, tante volte aveva trovato la quiete…adesso però si trovava vestita di brividi.

Fine quarta parte

30 agosto 2013

L'amour - pt. 3

(continua da qui)
La festa cominciò nel migliore dei modi: due appassionanti sfide a chi beve alla goccia rispettivamente una lattina di birra e un vodka lemon dal sapore metallico. Fu quando la testa cominciò a girargli appena, nel caos della musica rock a tutto volume, che dalla selva di ragazzi in maschera gli si fece incontro una sorridente e formosa Zorro, dal cui cappello nero sprizzavano qua e là inconfondibili ciuffi color fuoco.
Lo sguardo dei due ragazzi s'incrociò per due secondi quando l'avorio dei rispettivi sorrisi illuminò l'intero corridoio affollato. "Come stai Luke?" "Una favola Zorro". Con un balzo degno dell'originale eroe mascherato, Elena saltò al collo del malcapitato baciandolo sulla bocca ancora persa nel sorriso. Luca, inizialmente stupito e forse un po' scioccato, non poté - né volle - far niente per resistere a tale dimostrazione di audacia. Gli occhi socchiusi che spiavano attraverso la mascherina nera, la bocca persa nell'abbraccio umido e caldo assieme alla testa rapita dal micidiale cocktail di alcol, adrenalina ed eccitazione, lo proiettarono per un momento in quello che certamente doveva essere il paradiso. Il desiderio che cresceva con l'alcolemia e con i baci scambiati ora su una panchina e ora nascosti dietro una colonna, fece sperimentare a Luca sensazioni di gioiosa follia che ancora gli erano sconosciute. La sua buona stella aveva deciso che quella notte i genitori di Elena fossero fuori città, e guidò i passi disordinati e interrotti da continui baci dei due ragazzi per le vie del centro, fino a casa di lei.
In preda a sentimenti contrastanti Luca varcò il portone d'ingresso più per spavalderia e paura di passare da finocchio, che per reale convinzione: Il brivido novello della lingua morbida si scontrava con un sentimento che ancora lo legava stretto a tutta la sua vita precedente; queste sensazioni, mischiate alla paura istintiva e la bramosia di ogni vergine verso il mistero del sesso e delle ragazze navigate, lo sconvolgevano al punto di farlo quasi tremare in silenzio. Elena, che oltre che simpatica era dotata di un'intelligenza naturale, lo baciò dolcemente sulle labbra e con un sorriso lo scosse dal suo innocente terrore. Tirandolo per un polso, lo guidò nella sua camera, dove il dito sicuro di lei alzò l'interruttore invisibile al lato della porta: nella luce riflessa dello specchio scoprirono come i baffi di matita nera di Zorro, fossero adesso variamente impressi sulla bocca e sul collo di entrambi. Mai risata fu più liberatoria. Neppure le mani goffe ed inesperte nello sciogliere il reggiseno bastarono a cancellare il sorriso dalla faccia di Luca. Lì su quel grande letto morbido, al cospetto degli Arcade Fire e di Mia Wallace che li spiavano dalle pareti, si sentiva completamente a suo agio. La pelle olivastra profumava di frutta ed era così dolce da baciare. Le mani di Elena mentre gli sbottonavano i pantaloni e sfilavano la t-shirt, si muovevano lente e sensuali sul suo petto in cui sentiva crescere una fiamma così grande da temere di morire ustionato sotto le labbra di lei...
Fu così che Luca scoprì un altro amore, tanto diverso da quel sentimento che gli aveva schiacciato il petto e soffocato le parole in gola per anni. Una passione incendiaria e divertente, un salto di mille metri da un aereo senza paracadute, una pioggia fredda e pulita in una giornata afosa di Agosto senza ombrello. Non c'era tenera paura, non riverenziale silenzio, non meticoloso studio del volto o dei gesti...c'era solo la voglia traboccante di gioia, di stringere tra le mani quel corpo morbido per poi esplodere in un sorriso senza veli.

I due ragazzi cominciarono a frequentarsi ancor più assiduamente. Luca conosceva a memoria ogni anfratto nascosto dagli argini ombrosi che attraversano i campi, ogni radura semideserta arrampicata su per le colline coperte di vitigni, ogni squarcio di bosco da cui ammirare la città distesa a valle...e non mancò certo di mostrarli e viverli con la nuova compagna. Un orario di lavoro soffocante - e quanto mai opportuno - costringeva i parenti di Elena fuori di casa ogni pomeriggio, e Luca in breve tempo divenne grande amico dei poster e dei cd di quella camera fatata; era affascinato dalle pile di libri e dvd che abitavano ogni mensola. Amava quella casa silenziosa riempita solo dai loro bisbigli e sospiri.
Elena con impaziente premura insegnò al giovane compagno come si gioca al più vecchio e divertente dei giochi. Dalla sera in cui lo aveva conosciuto, scherzando con i soliti birboni del centro seduta in piazza su una panchina, aveva sognato di portarlo nel suo mondo e svelargli i suoi angoli più segreti. "Noto che ormai fanno entrare anche cani e porci all'Uni. Ai miei tempi almeno c'era un certo ritegno...Ah, io comunque sono Elena, piacere!" Con gli occhi semichiusi da uno splendente arco a trentadue denti aveva stretto per la prima volta la mano di Luca, tenendo nell'altra una birra bionda quasi vuota. Da due mesi ormai si chiedeva - senza particolare sforzo o cruccio - cosa le piacesse in quel pischello fresco di liceo, ed era giunta alla conclusione che vi fosse qualcosa di irresistibile in quel suo goffo modo di muoversi e nella malizia tagliente con cui  indistintamente affettava gli amici e gli sconosciuti...ma non poteva essere tutto qui. Dagli occhi chiari e allegri traspariva uno spirito benevolo e autentico, che tanto si scontrava con il suo modo di fare sbruffone e che non aveva conosciuto in nessun altro dei suoi ragazzi. Era un amante impetuoso ma generoso, vittima delle insicurezze dell'inesperienza, ma più che mai impegnato nell'apprendimento. Trovava il sesso con Luca a un tempo dolce e violento, e anche se non riusciva sempre a darle quello che desiderava, adorava il peso del suo corpo sul suo seno e l'odore della sua pelle priva di rughe o peli.

Qualche giorno prima del suo compleanno, il telefono di Luca, squillò.

Fine terza parte.

28 agosto 2013

L'amour - pt. 2

(continua da qui)
Il primo semestre si concluse e Luca prendeva sempre più confidenza con la dimensione universitaria, uscendo quasi ogni settimana con persone ancora sconosciute. Fu così che conobbe Elena. Una cascata di riccioli rossi variamente acconciati - e costantemente arruffati - che si specchiavano nel diamantino blu sul lato del naso piccolo e perfettamente tondo. Due occhietti allegri abitavano il centro della fronte alta, e vispissimi illuminavano il mondo con la loro luce color nocciola. La sua presenza era annunciata da una risata sguaiata singolare, e appariva sempre con le labbra sottili increspate in un sorriso che sapeva di primavera anche durante la prima fredda sessione di esami invernali. Aveva 22 anni, due morbide guance forse un filo troppo rotonde, così come i fianchi e il petto, generosi. Rideva nel parlare dei suoi tanti ex, e non perdeva mai occasione per fare apprezzamenti più o meno sessuali su ogni ragazzo, professore o personaggio pubblico che le passasse per la mente - nonostante la maggior parte di questi fossero clamorosamente dei cessi. Si presentò a Luca con una battutaccia e una Moretti da 66 cl in mano, e non ci volle tutta la sera perché i due cominciassero a isolare le loro risate e discussioni da quelle del resto della compagnia. Elena studiava lingue, la cui facoltà si trovava giusto a due passi dalla mensa dove Luca andava quasi tutti giorni con i suoi compagni per pranzo. Gli incontri tra i due in breve tempo divennero quotidiani. Luca non sapeva che pensare di quella pazzerella sempre allegra; se da un lato ne amava la solare compagnia, la musica insolita, e il colorito modo di raccontare feste, viaggi o film per lui del tutto sconosciuti, dall'altra era così diversa dalla sua dolce Beatrice da non poter credere di covare qualcosa di più che semplice e pura simpatia.
Già, Beatrice, la splendida compagna di una vita...le telefonate degli ultimi due mesi erano diventate sempre più difficili. Era in crisi con Andrea: quel cretino aveva mandato dei messaggi alla sua ex, e anche se non era chiarissimo, si diceva sicura che tra i due ci fosse ancora qualcosa. Luca lo aveva sempre saputo che quel rastone schifoso non poteva essere l'uomo giusto per una creatura tanto bella quanto lei, ma anche in quest'occasione decise di non dire niente e cucinare l'ennesima pizza cotto e funghi. Dal canto suo si sentiva un po' in difficoltà nel parlare della sua nuova amicizia femminile, non perché trovasse qualcosa da nascondere del suo rapporto con Elena, ma perché, in effetti, non gli era mai capitato di parlare alla sua amata di un'altra donna che non fosse lei stessa.

Una sera in cui Beatrice era libera dagli impegni di Andrea, Luca decise di portarla con sé e la compagnia universitaria a bere qualcosa in centro. Un'aperitivo e poi a casa, non voleva creare problemi alla sua amica già in crisi con il rastone. La serata si rivelò alquanto bizzarra: Beatrice, recuperata come per magia la freschezza del suo viso lentigginoso, conversò tutta la sera con i nuovi amici, scherzando con ciascuno e dimostrando di ricordare fin nei minimi particolari le telefonate con Luca dell'ultimo anno. I capelli biondi appena mossi e il vestitino verde acqua che le scendeva preciso lungo il fisico snello e morbido, lasciando trasparire la pelle chiara e profumata, la resero ovviamente il centro dell'attenzione di tutta la compagine maschile. Luca, candidamente felice di vedere la sua prediletta così allegra e impegnata, passò invece l'intera serata seduto sui gradini della chiesa a chiacchierare con Elena, dividendo - come era ormai loro abitudine - un paio di bottiglie di birra comprate dai cinesi al lato della piazza. Di tanto in tanto si assicurava con lo sguardo che l'umore di Beatrice non tornasse rovinosamente quello dei giorni precedenti, ma questa appariva tranquilla e divertita anche se ricambiava le sue occhiate con sorprendente premura, quasi stesse controllando che si divertisse a sua volta. L'episodio più singolare della serata avvenne quando il cellulare di Beatrice, squillando l'immancabile "All you need is love" che annunciava la chiamata dell'uomo maturo, fu allegramente spento con un fin troppo sonoro vaffanculo, che Luca attribuì indubbiamente allo spritz consumato dall'amica.

Da quella notte le telefonate mutarono ulteriormente, e in meglio. Luca era contento di sentire la sua protetta così desiderosa di scoprire nuovi dettagli delle sue lezioni, della vita dei suoi amici, delle serate alcoliche etc. ma ancora di più lo era per il non sentire quasi più raccontare le incredibili avventure di quello sfigato di Andrea. Unica nota dolente, Beatrice aveva sviluppato un incomprensibile astio nei confronti di Elena, di cui odiava praticamente tutto e criticava ogni singola divertentissima battuta. Diceva che una ragazza non dovrebbe bere come fa lei, né vestirsi in maniera così colorata o poco elegante e che tanto meno dovrebbe parlare di sesso o fare battute sconce con gli amici come farebbe un maschio. Luca per la prima volta in vita sua sentì che Beatrice forse era un filino piccolina per apprezzare la solare sincerità della sua amica.

E poi come in tutti i più begli anni universitari, arrivò il carnevale e l'immancabile festa nell'enorme plesso di economia. Luca ne aveva solo sentito parlare dai ragazzi all'università, i quali gli avevano riferito voci di seconda mano riguardo a fiumi di alcol a basso costo e schiere di ragazze allegre e mascherate, pronte a baciare chiunque fosse abbastanza ardito e in gamba per abbordarle. Dal canto suo, eccettuato un felice gioco della bottiglia di 2 anni prima, e pochissime altre occasioni liceali, Luca non aveva praticamente mai baciato una ragazza ad una festa. Il motivo era ovvio, ed aveva due occhioni verdi e mezzo metro di capelli d'oro; sinceramente credeva che questa sua mancanza fosse in qualche modo una virtù che impreziosisse il suo amore per Beatrice, o almeno così aveva pensato per tutti gli anni del liceo. In effetti, era un pensiero che non lo sfiorava da mesi ormai, e le molte facce femminili dell'ultimo semestre, inconsciamente avevano cominciato ad abbattere questa sua granitica certezza. Per correttezza, bisogna comunque dire che quando Luca arrivò con i suoi amici al banco del bar - un tavolo imbandito con lattine della peggiore birra spagnola e alcune tinozze ripiene di orrendi cocktail a 2 euro - il pensiero che avrebbe baciato una ragazza quella sera non lo aveva ancora minimamente sfiorato...

Fine seconda parte

25 agosto 2013

L'amour - pt. 1

E' la prima volta che scrivo una storia in più parti, ma il blog non si presta a letture particolarmente prolungate, per cui ho preferito dividerla. Anche il tema è decisamente nuovo per me, spero vi piaccia.

Da che si ricordava Luca non aveva mai conosciuto una creatura tanto bella quanto lei. Nel sorriso accecante e nel taglio degli occhi finemente allungato, era impossibile non cogliere la palese dimostrazione di un volere divino. Di lei contava le lentiggini che si illuminavano quando parlava. Di lei studiava l'ombra morbida che si curvava quando camminava. Di lei misurava il dolce sollevarsi della pelle quando respirava. Non c'era dubbio alcuno, era tutto quello che il suo cuore di 19 anni desiderasse. Eppure, nonostante un destino felice l'avesse posta praticamente a un palmo dalle sue dita anelanti, mai le sue braccia l'avevano afferrata per la vita soffice e stretta alla sua, avvampandola nell'incendio che sentiva bruciare sempre: vicini di casa, cresciuti assieme, migliori amici...solo migliori amici. Nei tanti anni di giochi e discorsi, certo gli abbracci non erano mancati, così come alcuni rari episodi d'intimità e imbarazzo che Luca custodiva gelosamente come tesori, resi ancor più luminosi dalle migliaia di volte in cui li aveva accarezzati prima di addormentarsi. Mai però era riuscito a esprimere in parole o gesti questo suo segreto desiderio, trovandosi ad essere a un tempo sia campione che schiavo di un amore che spesso sentiva troppo pesante da portare. Cristallizzato in un'amicizia - che amicizia poi non era - e conoscendo a memoria come ogni curva di quel volto delicato si arricciasse, ormai  riusciva ad intuire ogni pensiero che sfiorasse la mente di lei prima ancora che quest'ultima immancabilmente glielo confessasse.
Arrivati al liceo però erano state proprio le parole dolci della sua confidente a regalare a Luca i primi assaggi di tristezza e dolore, i movimenti tremendi di gelosia e le notti insonni: il primo bacio con Federico, i pomeriggi con Marco e gli altri, ma soprattutto le notti con Andrea. Luca, dal canto suo, non riusciva a fare altro che ascoltare silenzioso le risate e i dettagliati racconti, per lui così carichi di mistero eppure insopportabili. In questo rapporto divenuto piano piano sempre più a senso unico, le uniche parole che egli osasse proferire erano quasi sempre affermative. Solo i suoi occhi tradivano il movimento turbolento in cui il suo spirito s'agitava da anni ormai. Io non ti lascerò mai da sola. Tu sarai sempre felice. Tu sarai mia.

Beatrice aveva 18 anni ed era sempre stata stata la più bella della classe oggettivamente. Oggettivamente sì, perché non si era mai sentita tale, o comunque non si era mai comportata di conseguenza...che seppur non sono la stessa cosa, il risultato probabilmente non cambia. Cresciuta correndo qua e là per i campi con Luca, manteneva negli occhi verdi screziati la freschezza e la genuinità dei suoi primi 10 anni; con curiosa ingenuità questi ultimi si posavano sulle meraviglie del mondo inseguendo qualsiasi cosa volessero. Va detto che il più delle volte la ottenevano - e facilmente. La curiosità però è una belva ingorda, e il suo prezzo si paga con l'incessante bisogno di nuove avventure. Con gli anni infatti le passioni si erano moltiplicate, così come il numero di sport praticati, di ragazzi o di religioni da cui era rimasta affascinata.
Tutto era cambiato con Andrea: 25 anni finiti, una macchina e un'intera nuova dimensione in cui trovarsi proiettata. Con lui aveva scoperto cosa significa essere donna, non tanto per il sesso - che era stato per lei a un tempo romantico e strano in fin dei conti, e forse anche un pelo noioso - quanto per i problemi e i privilegi che solo un uomo, anche se in fondo ragazzo, creano nella vita di una diciottenne che divide ancora il letto e i pasti con i genitori. Andrea era in grado di farle fare qualsiasi cosa lui desiderasse, era un mistero ancora così grande con i suoi esami di scienze politiche, i racconti di sbronze immense, le battute volgari, la marijuana, i rasta...tutte queste cose le suonavano così affascinanti e tremendamente virili. Poco contava che non fosse bellissimo o ricco, che fosse fuori corso di 3 anni e non la portasse nei ristoranti. Andrea era un uomo vero.
Era così diverso da Luca: il suo dolcissimo amico e confidente era troppo tenero. Non particolarmente alto o aggraziato, Luca passava la maggior parte del tempo a ridere con quei coglioni dei suoi amici del bar, di cui peraltro era indubbiamente il capo con la sua simpatia sfacciata e la sua linguaccia sempre pronta a cogliere e sottolineare i difetti di tutti. A dire il vero, aveva un volto carino con gli occhi grandi e chiari e il mento dritto e ben marcato, seppur privo del benché minimo pelo di barba. Beatrice odiava vederlo assieme a quei deficienti dei suoi amici a fumare e a parlare di fiche o a prendere per il culo i pischelli degli anni inferiori. Lei conosceva quale fosse la vera natura di Luca, e questa era gentile e sensibile, sempre pronta ad aiutare gli altri e soprattutto sempre disposta a volere bene a lei. Quando Marco l'aveva tradita con quella troia di Claudia, Luca era stato un angelo per lei. L'aveva ascoltata, le aveva asciugato le lacrime, le aveva cucinato una tremenda pizza surgelata al prosciutto cotto e poi, guardandola con quei suoi occhi da cucciolo, aveva detto "Tu devi essere sempre felice, sei una persona troppo splendida, il mondo te lo deve". Da allora erano seguiti altri ragazzi ed altre disavventure amorose, tutte finite tra le braccia di Luca, con una pizza o una pasta scadenti e bagnate dalle immancabili lacrime che sempre le segnavano il viso in quelle occasioni. Una volta, mentre Luca la fissava negli occhi arrossati dal pianto, aveva pensato che tutto queste sofferenze le capitavano perché poi almeno sarebbe stata consolata dal suo angelo.
Mai una volta aveva cercato di baciarla, mai una volta aveva provato a prenderle la mano per farla ballare o per portarla in un posto romantico. E pensare che quando erano più piccoli lo aveva sorpreso una volta a spiare dalla serratura del bagno...anche se lei si era presa ancora due minuti prima di reindossare l'accappatoio e quindi fare una scenata, uscendo. C'era stato poi il compleanno dell'anno prima, conclusosi alla sera nella sua camera assieme agli amici e le amiche più strette, che a momenti ridendo e a momenti arrossendo, facevano ruotare a turno una bottiglia di Coca-cola sul tappeto; fu così che per la prima volta lei aveva baciato lo storico vicino di casa...nonché altri due o tre fortunati ragazzi di cui, a dire il vero, non ricordava neppure il volto. Luca comunque era un angelo, sempre pronto ad aiutarla e ad ascoltarla, in silenzio. Sapeva però che non gli piaceva Andrea: nonostante le risposte di Luca continuassero ad essere immancabilmente positive e trovasse ancora il tempo per stare al telefono con lei per ore, sentiva che il suo uomo non era apprezzato. L'amico era solo un ragazzino in fondo, era ovvio che non potesse capire quanto splendido Andrea fosse.

Il liceo di Luca finì e il mondo per lui si fece d'improvviso più largo. Agli immancabili amici del bar, se ne aggiunsero di nuovi conosciuti all'università, gente originale e spassosa, che raccontava storie incredibili nonché scherzi e battute mai sentiti prima. Non ci volle molto tempo prima che la linguaccia di Luca gli valesse un posto di riguardo nella compagnia, e così le uscite in città si moltiplicarono, parallelamente diminuendo quelle in paese.
Con l'arrivo dei corsi universitari anche le telefonate con Beatrice cambiarono di tono: i soliti racconti di Andrea e della sua nuova chitarra elettrica, si avvicendarono con gli aneddoti sui chiarissimi professori e i loro modi di fare cretini, le leggende terroristiche sull'esame di economia politica e soprattutto le particolareggiate narrazioni delle meravigliose notti a bere in centro con i nuovi amici, così diversi e interessanti rispetto a quelli del liceo o del bar. Luca sembrava totalmente rapito da questo mondo che profumava di avventura, e Beatrice si stupì nel rendersi conto per la prima volta di come non conoscesse più il fondo dell'animo dello storico amico. Per quanto si dicesse sinceramente felice per lui e di tutte queste sue nuove esperienze, sentiva di star perdendo in parte quella magia che l'aveva legata a Luca fin da piccola. I suoi occhi erano ancora colmi di dolcezza e generosità, ma le sembrava che sul fondo di essi non ci fosse più solo che questo.

Fine prima parte