31 ottobre 2015

Primari

Avevo smesso di fumare. Ho riniziato. In realtà, è un vizio che non ho mai veramente perso.

Sono trascorsi un bel po' di anni dalla prima sigaretta rubata alla mamma di non ricordo chi, accesa nel campo dietro casa, al riparo da parenti e passanti. Devi aspirare. Girava di mano in mano nel più religioso segreto, tra risate e colpi di tosse.  Io aspiro sempre! Probabilmente ce ne sono state altre prima di quella in particolare, ma è la prima di cui mi ricordi e quindi fa lo stesso.
Ne ho dimenticato il sapore, ma ho ancora ben presente la soddisfazione misto senso di colpa di quella Malboro Light. Non posso dire lo stesso di praticamente tutte quelle che sono venute dopo.

In questo momento fumo una Camel in cucina. Il tizzone che si mangia il cilindro di carta produce uno sfrigolio peculiare. Un ticchettio che ha accompagnato questo gesto ripetuto Dio solo sa quante volte, e mai degnato di attenzione. Il rumore è sempre stato lì in mezzo alle chiacchiere, alle pause dalle lezioni, agli sguardi sollevati dal libro, ai treni che passavano, ai discorsi sconnessi, ai come stai? e ai ti è piaciuto? Una voce familiare appena udibile e che sostanzialmente non dice nulla. Queste Camel non sanno di un cazzo. A dire il vero è da un bel po' che hanno perso sapore. Quello che rimane sempre uguale è la nuvola di fumo che intasa i polmoni e colora di grigio bluastro l'aria qui intorno. A me neanche piace il grigio. A dirla tutta io odio il grigio. Eppure lo respiro di continuo, anche con l'accendino in tasca e il pacchetto vuoto.

Lo spettro della luce è composto in ugual misura da tre colori. Ciano, magenta e giallo. La loro combinazione a coppie produce rispettivamente il viola, l'arancio e il verde. Prendendo uno dei primi e mettendoli vicino alla combinazione degli altri due, si ottiene il massimo contrasto possibile. Questo è un vecchio trucco da sempre usato dagli artisti per trasmettere emozioni.


Campo di grano con volo di corvi - V. Van Gogh, 1890. 

Finito di dipingere Vincent quella sera tornò a casa, come sempre, quindi prese la rivoltella e si sparò nel petto. La pallottola si conficcò nel polmone, senza recidere arterie di grosso calibro o sfiorare il cuore. Gli ci volle un giorno intero ad andarsene. Trascorse le sue ultime ore in compagnia del fratello a chiacchierare e a fumare la pipa.

I colori sono tutto, non c'è bisogno che lo dica io. 

10 ottobre 2015

Malessere, definizione di.


L’orlo del vortice era formato da una larga fascia di spuma scintillante, ma nemmeno una goccia di tale frangia cadeva nella bocca del terrificante imbuto, il cui interno, fino dove arrivava l’occhio, era una parete d’acqua liscia, brillante, nerissima, inclinata a quarantacinque gradi sull’orizzonte, animata da un moto rotatorio e insieme ondulatorio lungo il perimetro esterno, capace di emettere un suono pauroso, per metà urlo e per metà ruggito, più intenso di quello che sia mai salito al cielo nella sua angoscia dalla possente cascata del Niagara. La base della montagna e la stessa roccia tremarono ed io, terrorizzato, mi gettai a terra abbarbicandomi ai radi ciuffi d’erba. 
«Questo», disse il vecchio, «questo non può essere altro che il grande vortice del Maelström.» 
Dicesi malessere quella condizione esistenziale simile a una spirale, nelle cui spire alle voglie si sostituiscono i pruriti, dove i si fanno assai più rari dei no, e dove alle strizzate d'occhio si avvicendano i sopraccigli inarcati. Una condizione in cui fondamentalmente le idee di bello o di giusto o di buono non trovano alcuna manifestazione tangibile. Se da una parte la risata diventa smodatamente cara e preziosa, dall'altra la cattiveria si fa tremendamente semplice e gratuita. Posti del cazzo, gente del cazzo, lavoro del cazzo, vita del cazzo. D'un tratto le due linee che separano lo squallore totale dalla fighettaggine più snob, si avvicinano al punto da ritagliare una striscia di mondo tanto sottile da starci stretto anche tu solo. Una posizione perdente, in buona sostanza - per non dire una posizione del cazzo. Ecco che la ricerca della tua felicità si fa invidia dell'altrui allegria, per poi degenerare in sincero disprezzo per il modo triste che tutti quanti hanno di stare serenamente al mondo. Ti ritrovi unico censore autoproclamato di un disagio diffuso e sbagliato, da combattere, da criticare e da farti il fegato amaro. Un censore tanto inutile quanto miope. Un censore del cazzo. Non ci vuole molto a capire che il problema sta da questa parte della scena, dietro il palco, in platea, lassù sulla tribuna da cui osservi lo spettacolo amaro con cui in genere s'intende la vita, o l'oggi, o la gente. Non ci vuole molto, ma per te è comunque decisamente troppo. Ormai hai perso completamente il gusto delle cose, delle persone, delle situazioni. Le poche cose che ancora ti suscitano un brivido sulla pelle, sono un bacio rubato, una scopata clandestina, un messaggino di buonanotte. Una buonanotte del cazzo. Per quello che ne sai la tua vita dovrebbe valere qualcosa di più del mero bisogno di ficcare l'uccello da qualche parte. A pensarci bene però forse non è poi così vero. La Bibbia recita testualmente andate e moltiplicatevi. Ed ecco che ti ritrovi a contare le volte in cui hai detto io non ti amo e scopri che sono molte di più di tutte le altre; quelle in cui, vittima della magia del momento, del sorriso, del profumo e del calore...ti sei ritrovato a dire quelle due paroline, certo che da quell'istante in poi le cose sarebbero state inevitabilmente diverse. Finché poi alla tristezza dell'ennesima delusione, si sostituisce la convinzione che in fondo è così gira il mondo, che solo un coglione poteva pensare diversamente. Una volta che hai finito di annegarti anche in questo fiume di lucida negatività, inizi a nuotare a ritroso nel tentativo di trovarne la fonte. E allora capisci che di base sei tu che non sai stare bene. Anche stare bene è da coglioni. Cercare la sbandata alla nostra età è da coglioni. Sognare è da coglioni. Ridere, divertirsi, ubriacarsi, staccare il cervello, conoscere sconosciuti, spendersi...tutta roba da coglioni. Ti esaurisci nella ricerca del motivo di tanta idiozia e ne trovi mille diversi, ma neanche mezzo che renda merito a quello che senti. Perchè la tua non è una sofferenza sincera. Tu vuoi stare male. Diciamocelo: è una sofferenza del cazzo. Tu vorresti sentire la mancanza di qualcosa - di qualcuno. Hai sempre pensato che in fondo si sta al mondo per trovare quelle cose che ti ci vogliono essenzialmente. E per essenzialmente si intende che quando se ne vanno via, ti fanno male. Tu cerchi quel male lì, di tutti quegli altri ne puoi fare a meno...assapori quindi l'inutilità della tua esistenza, come se potessi davvero provarci gusto. Ormai inebriato da tanta consapevolezza circa la tua grama condizione, per un momento ti senti come estasiato, quasi libero da quel fastidio di base che provoca il dover avere a che fare cogli altri, la famiglia, il mondo, il destino, il futuro, il tempo, il meteo, la pioggia, l'acqua, il vino, le piazze, i pedoni, i bus, le strade, i semafori, i colori, i vestiti, le mutande, le toilette, lo spazzolino e il letto...



Fin quando poi la mattina dopo ti svegli e riaffiori dal vortice di cazzate che hai scritto. E lì, davvero, ti accorgi di essere un coglione. Magari torni anche ad essere quel coglione. Il coglione allegro. E perchè no? Il coglione felice.

14 settembre 2015

Cazzi miei sui canzone una scritto ho



Sono in debito col mondo
per tutte le file che ho saltato,
per il pollo comprato a sconto
e scaduto in frigo ancora incartato,
per la faccia di culo con cui ho chiesto
me la dà una sigaretta per favore?
dopo il caffé, dopo la lezione,
dopo il treno o dopo una bevuta,
a passanti, conoscenti e altre persone,
che se dovessi restituirne la metà
dovrei darmi alla prostituzione;
per la montagna di calzini spaiati
che cresce ad ogni lavaggio
e regolarmente ricomprati,
per i decenni di cazzeggio
e per i buoni propositi rimasti tali;
per la classe di noi italiani
che ci professiamo uguali
a tutti gli altri: albanesi,
greci, marocchini, egiziani,
libici, zingari, negri e cinesi,
però aiutiamoli a casa loro
che qui ci sono già troppi animali.

Sono in debito cogli amici,
per tutte le volte che ero via,
per le serate ubriachi fradici
a brindare alla vita e alla fia,
per i compleanni che non c'ero
e le lauree che mi sono perso,
per le cazzate dette a cuor leggero
volendo aver ragione lo stesso;
perché questo fine settimana lavoro
e per quello prima che ero stanco,
perché anche se parlo sempre io
loro continuano a telefonare
e sopportano l'incessante parlottio
invece di mandarmi a cacare;
per quelli che vorrei qui ancora,
ché una foto o un mi piace non bastano
a rendere merito a chi eravamo allora,
né nella memoria mi risvegliano
il piacere di averli intorno
e di fare i coglioni tutto il giorno.

Sono in debito coi miei
per i viaggi, i ristoranti, i musei,
per i ventisette anni di intimità
sacrificata per la mia felicità,
che poi tanto felice non è stata
anche se sono loro ad averla pagata,
per i ventisette anni di vita insieme
che potevano passare ad amarsi
anziché subire le bizze del loro seme,
che io al posto loro, a pensarci,
col cazzo che lo vorrei un figlio
che senza alzare un sopracciglio
come unico ringraziamento
presenta l'affitto dell'appartamento.

Sono in debito colle donne
per le notti passate insonne
a scoprire perché il buio è dolce
se sei avvolto in un vortice
di lenzuola, pelle e sudore;
per le poche volte che ero innamorato
e per tutti gli attimi di amore
che in questi anni ho rubato,
per quando il letto era già tiepido
ed era facile riposarsi,
per le volte che sono stato avido
ed era comodo dileguarsi,
per tutte le storielle passate
- gonfiate ad ogni racconto -
e per le avventure incoffessate
in cui sono stato uno stronzo,
per quei messaggi improvvisi
che come un deficiente
ti strappano gli stessi sorrisi
di quando eri un tredicenne,
per le mie ragazze - quelle mie davvero -
anche se per poco tempo,
che hanno cambiato chi ero.

Infine sono in debito col tempo
per averne preso tanto per me solo
come questo che spreco scrivendo,
e averne dato agli altri troppo poco:
il mio egocentrismo sta peggiorando.
Sarà il segno che sto invecchiando
e sarà l'influenza di una certa musica
fatta di liste infinite più o meno in rima,
che svelano un desiderio di cambiamento
e uno spirito di osservazione sostanzialmente
inutili quando fine a sé stessi - come adesso.
Si tratta di una lunga tradizione musicale
che va fatta risalire ai testi di Rino Gaetano
ed arriva fino a quei coglioni de lo Stato Sociale.

13 agosto 2015

Di Pisa, del caldo e di quell'artre 'azzate

La voglia di lavorare è ormai ridotta a poche stille che evaporano nel caldo insostenibile di quest'estate. Sono schiavo qui, a Pisa, altrimenti nota come la città più afosa dell'italica penisola.

Nel Dialogo Sui Massimi Sistemi, Galileo così diceva della sua terra natia: "Deh, ci si ribolle". E ancora nel Sidereus Nuncius "Pensa che sul Sole fa'n cardo bestia che pare di sta' a Pisa!".
Anche il Boccaccio ha scritto alcune righe in merito all'ex repubblica marinara "Era n'afa che un ci si riavea neanche dopo'l bagno in Arno". Celeberrimo è invece il passo del XXII canto dell'Inferno in cui Dante parla di come fecero i pisani a sfuggire al clima tropicale:

"D'estate, inver, sì caldo facea
che li pisani per frigerio trovar 
costruiro'l campanil che pendea:

in origin dritto lo dovean far
ma giacchè ombra a Pisa un c'era
alto e torto lo voller innalzar

sì che el diede maggior copertura
pel popolo che sotto si pigiava
e posar potea nella frescura"

Tra i grandi poeti del passato tuttavia, è sicuramente Leopardi quello che ci ha lasciato le più celebri parole dedicate alla città e al suo clima: "L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo lungarno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano, né a Roma, e veramente non so se in tutta l'Europa si trovino vedute di questa sorta. Vi si passeggia poi nell'inverno con gran piacere, perché v'è quasi sempre un'aria di primavera: sicché in certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico, che non ho veduto mai altrettanto. A tutte le alte bellezze, si aggiunge la bella lingua. Però a Pisa non si tromba."
Com'è noto il poeta, una volta lasciata Recanati, aderì ad un ferreo regime di droghe pesanti - già all'epoca particolarmente facili da reperire in Piazza Vettovaglie - il che spiega il 99% delle affermazioni che avete appena letto.
Tuttavia alcune delle osservazioni del Leopardi trovano riscontro nella realtà:

 - vi si sentono parlare dieci o venti lingue: e questo perché i Pisani non esistono. Vi posso assicurare che in tutta la città non c'è neanche l'ombra di un autoctono. Leggende urbane che si perdono nell'alba dei tempi, narrano che gli indigeni sarebbero migrati altrove, mossi dallo sdegno per l'ennesima invasione di barbari provenienti dall'Oriente - che giungevano a frotte in città per farsi ritrarre in Piazza dei Miracoli (mentre fingevano di arreggere la torre) fin dall'Alto Medioevo. Pensate che tutt'oggi la piazza è gremita da pullman e file di cinesi, eppure del Pisano Doc© ancora non c'è traccia. Se proprio sei fortunato puoi incontrare qualche nativo di Buti, Lari, Fauglia, S.Croce sull'Arnaccio, Pontremoli, Cascina e tutta quella serie di ridenti località campestri più celebri perché citati nei doppiaggi del Nido del Cuculo che per l'amenità dei loro scorci.

- A tutte le alte bellezze, si aggiunge la bella lingua: I nati nella provincia di Pisa (visto che di pisani veri non ce ne sono), parlano un toscano imbastardito da inflessioni liguri e espressioni marinaresche, e che di bello sinceramente non hanno proprio nulla. Alle C aspirate del fiorentino, qui si preferiscono le R marcate e inopportunamente sostituite alle L: "e tu ha'visto un beR fiRme!" (hai visto un bel film! - trad. ti stai ingenuamente illudendo); si utilizza ovunque il deh  con funzione di interiezione esclamativa o interrogativa, di avverbio, preposizione, pronome o anche di particella a sé stante con dubbio significato: "Ma hai mangiato?" "Deh"; il pisano assomiglia tantissimo al livornese, ma chiunque a Pisa - calabresi, siciliani e albanesi inclusi - ti dirà che sono totalmente diversi. Per concludere, nel lessico pisano esiste una parola che da sola definisce questi caratteri non precisamente eleganti e aggrazziati del dialetto quivi parlato, ed è ghiozzo. Ebbene, il pisano è ghiozzo. 

- A Pisa non si tromba: per quanto alcuni filologi oggi mettano in discussione l'attribuzione della frase al sommo poeta, essa rappresenta a tutt'oggi una drammatica realtà. 

- Pisa è un misto di città grande e di città piccola: In soli venti minuti di passo tranquillo vai dalla torre alle spallette dei lungarni, con tanto di selfie e birra in piazza Cavalieri. Fuori le mura trovi ad attenderti la città nuova, dove i quartieri rinascimentali svaniscono in un lampo tra le palazzine anni '80 e i vialoni senza alberi. Ecco che la dolcezza della città che si specchia nell'Arno lascia il posto all'anonimato della più grigia periferia: se sovrappensiero ti allontani dal centro, d'un tratto alzi gli occhi e sei colto dalla sensazione di poterti trovare in un punto qualsiasi del globo. Inavvertitamente cerchi collo sguardo un qualsiasi campanile, edificio o lampione che penda, giusto per ricordarti dove sei. Se testardamente continui a camminare, prima o poi finisci nel quartiere di San Biagio, dove - ironia della sorte - sorge il grande ospedale universitario. A poco a poco vieni inghiottito dai padiglioni numerati del presidio di Cisanello, in una distesa infinita di mattoncini rossi e tetti a capanna sorretti da colonnine di cemento bianco. Sfuggito anche alla morsa del nosocomio, raggiungi infine il limite esterno della città, inanellato dai raccordi della superstrada che si snoda nella campagna verde, non ancora erosa dal cemento. Qui la tua fame di spazio e di aria trova infine appagamento nel profilo morbido dei colli, che si frappongono a Lucca, sul finire di una distesa d'erba e girasoli.


La mia esistenza pigiato sotto l'ombra della torre procede, e confesso che ormai un po' Pisano mi ci sento davvero - volente o nolente. Ho passato fin troppo tempo a friggere nei ricordi e a struggere nei rimpianti di quel pezzetto di esistenza fiorentina interrotta. Capisci di avere un problema quando un bel giorno ti alzi, ti metti un bel cappello, fermi una bella ragazza per strada e anziché chiederle il numero di telefono, le pianti un mega pippone sul come sia tremenda la tua nuova vita da specializzando a Pisa. La fanciulla, in tutta la sua innata grazia e cortesia, ti scruta coi suoi occhioni carichi di dubbio e, mossa dalla più sincera curiosità, ti chiede: "Ma che cazzo di problema hai?". Ottima domanda. Sono passati alcuni mesi da allora, e ancora non saprei ancora cosa rispondere...e questo perché mi sono reso conto che effettivamente è da idioti passare le giornate a cercare una risposta. 
Vi ho raccontato questo suggestivo aneddoto cercando di darvi una spiegazione per non aver scritto, per essere stato molto poco social e, in fondo, per essermene altamente fregato di tutti voi negli ultimi mesi. Che volete, in questo caldo demenziale anche i legami si sciolgono - e io ho lasciato che si allentassero, almeno un po'. Alcuni di questi erano come nodi che stringevano troppo, fino a togliere il fiato e strozzare le risate in gola, come si fa con gli starnuti.

A tutti voi che siete partiti per non tornare, a tutti quelli che si sono sistemati, e anche a tutti gli altri che per un motivo o un altro non incrocio più per strada o al bar, confesso che mi siete mancati tanto, e che mi avete fatto anche discretamente male. Non ne ve ne faccio una colpa...semmai ve ne rendo il merito: spero di poter conoscere ancora molte altre persone di cui poi soffrire la mancanza; di quelle altre se ne può fare anche a meno.

Ogni giorno che passa mi rendo conto di essere sempre più isolato nel mondo ospedaliero, a tratti molto pesante...però dopo aver lasciato un po' a fermentare al sole i giramenti di coglioni, i dispiaceri e le mancanze, mi è tornata la voglia di ridere, di rompere i coglioni e di condividere.
Sto vivendo un bel periodo.

21 giugno 2015

Il singhiozzo

Riprendo il regionale Pistoia-Pisa dopo oltre due mesi di totale astinenza da Trenitalia; tornano le mie due ore e mezza di musica e scrittura che dividono un letto dall'altro, gli amici dai colleghi, la famiglia dallo stetoscopio. Gli ultimi, sono stati 60 giorni di rottura - nel senso più distruttivo del termine. Sono andato giù fisicamente e psicologicamente. Tranquilli, non starò qui a tediarvi con la lista dei colpevoli o dei sospettati tali; sono stanco di trovare giustificazioni al mio umore o all'insonnia. La sensazione è quella di essermi ingozzato di stanchezza, malditesta e buoni propositi disattesi. Finalmente comincio a digerirli, ed è questo che conta - sebbene abbia il singhiozzo.

Le giornate da dottore si alternano alle serate da coglione col gusto prezioso di sentirti nei tuoi panni, in corsia come in piazza. Riscopri una curiosità negli altri e una fame di novità che non riuscivi neppure a scimmiottare fino a due settimane fa. Ritrovi il ruzzo di far ridere un paziente a letto o una ragazza al tavolino di un bar. Potresti chiamarla allegria, senza grandi approssimazioni. Quando d'un tratto ti fermi, perso dietro a quei momenti che sottili come spilli s'insinuano alla base del collo. Disperazioni leggere che riempono lo strato morbido su cui galleggia il cervello. Li chiamano disforie, disturbi dell'umore. Fluttuano e s'infrangono contro l'occipite, sciabottando mezzi pensieri e false speranze. Non è facile trovare qualcosa a cui aggrapparsi, e forse ci trovi anche un piacere tutto speciale a lasciarti sprofondare. Laggiù, sul fondo, nessuno ti rompe i coglioni di più di quanto non lo faccia già la vita. Ti senti così spento da provare pure un breve sollievo nell'ennesimo fallimento sociale. Una boccata d'aria tra un "come stai?" e "un bene grazie"; i cinque minuti di macabro desiderio che tutti spariscano. Ti ficchi le cuffie nelle orecchie e ti abbuffi di canzoni strane che piacciono solo a te - e che se così non fosse, con buona probabilità, neppure ne sentiresti l'appetito.
Poi, così come è arrivata, la marea si ritira lasciandoti nudo sulla rena a stendere i panni mezzi. Menomale che è caldo e la roba asciuga in fretta - specie colla compagnia giusta. Gli amici miei.

Sono reduce dal mio primo addio al celibato: 24 h di musica scassata, bottiglie vuote, andature a zigzag tra un piadinaro e un locale e tante - ma tante - risate. Buon tempo che scorre in un secondo, in spiaggia come in strada o in albergo; ed ecco che se le 4 ore di fila in autostrada fossero state 5, in fondo in fondo sarebbe stato meglio. Un tuffo nella fonte dell'eterna giovinezza - che non è il long island, ma la totale incapacità di prendersi sul serio.
Dio se mi mancava.

Vai in reparto col sonno ed esci fuori ridacchiando e col sapore buono in bocca di aver capito (quasi) tutto. Le porte della corsia si aprono e ti trovi l'estate, la moto e i vestitini corti che ti salutano sul viale alberato ancora soleggiato e verde. Accelleri fino a che la maglietta si alza e il vento ti scivola lungo la schiena sudata mentre l'acciaio del serbatoio ti sbruciacchia la pancia. I 120 all'ora senza guanti, giacconi o carene ti scuotono come una bandiera al sole.
Tuttavia, non è tutto oro quel che luccica, e io non sono certo ricco - né mi sento tale. E così, per guadagnarmi un'ora di cazzate, devo sudare una giornata o una settimana. Sono così povero da non potermi permettere di assecondare i malumori o correre dietro ai sorrisi. Incastrare un umore malfermo in una tabella di marcia con ridottissimo spazio di manovra, non è roba da poco. Ci sono momenti neri, ma anche quelli bianchi scintillanti; l'importante è non dissolversi nel grigio della routine, scomparendo per sempre in quello che hai da fare, al punto da non sentire più la mancanza di quelle due o tre cose che credevi essere parte integrante del tuo essere te stesso. 
Questa cosa mi terrorizza al punto da farmi perdere il sonno - e non lo dico così per dire.

Ok, sto facendo il melodrammatico, non lo nego.

13 maggio 2015

Specchi rotti

Per una volta voglio parlarvi di una persona che non sono io. So che la cosa potrebbe lasciarvi esterrefatti, ma credo proprio che correrò il rischio.
La persona di cui vi voglio parlare - premetto - è in buona misura frutto della mia fervida immaginazione, ma visto che è dalle mie parole soltanto che la conoscerete, non credo che questo possa compromettere la bontà del discorso.
Si tratta di una creatura fantomatica, un unicorno, se volete - anche se priva di escrescenze cornee in mezzo alla fronte.
La conobbi una notte in strada, per caso - anche se io al caso c'ho sempre creduto il giusto - e a dirla tutta credo di averla vista sì e no altre due volte. I nostri incontri sono stati quanto di più tiepido possiate immaginare: poche parole, diverse risate e qualche incomprensione. Tutto qui. Perché ve ne parlo? Beh la domanda giusta credo debba essere: perché ci stai ancora pensando? Ma ad entrambe non saprei rispondervi se non con un sorriso da ebete e qualche mezzo discorso senza senso.



Viviamo in fondo a due binari diversi, e forse non c'è giorno in cui non mi penta di aver sprecato il breve tempo in cui i nostri treni viaggiavano paralleli, senza fare un pezzo di strada assieme. Non che non ci abbia provato. Purtroppo nella confusione del vagone dove sedevo, ero troppo preso a intrattenere gli altri passeggeri per riuscire a ritagliarmi quei momenti di scambio sincero che richiedono un tempo e una disposizione d'animo del tutto speciali. Gli stessi di cui sento la mancanza adesso - ma non siamo qui a perderci nei rimorsi.
Ciò che rende tanto eccezionale questa creatura, credo sia la totale incoscienza della propria straordinarietà - nel più genuino senso del termine: extra-ordinaria, fuori dal comune, rara, strana, diversa, quello che volete voi. In fondo è sempre così: sono le cose che non sanno di essere belle a piacere di più, investendo voi che guardate del grande onore di saperle apprezzare.
Immaginate di scoprire un ritratto del vostro pittore preferito sulla bancherella di qualche ambulante, e di riconoscerne i colori dietro il velo di polvere misto indifferenza che ne ha ormai permeato le fibre. Un quadro non si giudica dall'autografo, né dalla collocazione in un museo o in mezzo a un mucchio di vinili dalla copertina ammuffita. Un bel quadro non esaurisce il suo messaggio in quello che l'artista voleva dire, ma ne trova di nuovi in ogni paio di occhi che si fermano a interrogarlo.
In questo senso per me era un capolavoro.
Fin dal primo incrocio di sguardi colsi una simpatia che decisamente cozzava col velo di tristezza che traspirava da quel corpicino fine.
Uno specchio che ti abbaglia quando i tuoi occhi sono tangenti alla luce del sole, costringendoti a ruotarli, e in cui vedere riflesso lo spirito che si agita sotto il cervello e la nuvola di cazzate che gli ruotano attorno.
Insicurezza. La stessa che ho io. Quella che ti viene quando non ti senti sulla strada giusta, e acuita da quelli che giurerebbero di averla trovata da un pezzo...per lasciare poi il posto alla consapevolezza che in fondo di giuste non ne esiste nemmeno una. E quindi scoprire l'allegria che viene dal capire che con tutta probabilità non c'è neanche quella sbagliata. 
Tu sei un capolavoro, per me.
Lo so, trovandomi nell'impossibilità di dare un seguito alle mie parole, è comodo per me parlare così. Ma se lo faccio è perché sono un egocentrico del cazzo che ti vuole bene.

24 aprile 2015

Leoni in gabbia

Rinchiuso a soli 27 anni in un ospedale: condizione esistenziale indubbiamente riduttiva.
Chi me l'ha fatto fare? Non ve lo dico. Non siamo qui a rispondere alle grandi questioni quali perché esistano almeno 8 varietà di zanzara diverse o perché Ligabue resista così strenuamente al baby-pensionamento. Piuttosto siamo qui a non prenderci sul serio, il che non guasta mai. Le persone che si prendono troppo sul serio finiscono quasi sempre prese per il culo. Noi giochiamo di anticipo.



La sveglia suona alle 7 e 32. Le prime note di chitarra di Here comes the sun dei Beatles portano un raggio di luce sul lettone perennemente disfatto. Tu però alla sveglia gli vai in culo: sei già sveglio dalle 7 e 15 coll'occhio incispato per riscoprire le mitiche avventure di Pollon in tv. Mastichi fieramente il cornetto integrale del mulino - 40 punti fragola Esselunga - mentre scorri i 500 messaggi della chattona di reparto. Gli aggiornamenti telegrafici sulle procedure del giorno prima tipo "Caf abl FA ok, proc diff" accompagnano i 5 minuti necessari a sorbirti il cappuccino e ripensare a quando il ciguettio di whatsapp ancora suscitava un certo brivido. Ormai sono le 7 e 55 e il secondo meteo di Sottocorona ti ha già convinto che anche quest'oggi mezza Italia andrà a cogliere margherite per le campagne e a far all'amore sotto gli argini dei ruscelli, mentre tu ti abbronzerai alla luce dei neon di corsia: è l'ora di andare. Ti cacci le cuffie giù per i meati acustici e monti in sella al sempre-verde Suzuki Burgman 250 felicemente battezzato su strada nel lontano 2000 e intriso dall'asfalto misto ginocchia sbucciati di almeno 3 generazioni di Biagini. La musica assordante e lo slalom ritmico tra pedoni e auto ti galvanizzano finché lo scoppiettio della marmitta non ti riporta cogli occhi sul semaforo rosso, ad attendere l'attraversamento della scolaresca di turno.
Arrivi in reparto alle ore 8 e 10, via la musica. Il chiacchiericcio e il bip delle telemetrie rioccupa lo spazio intorno a te. Adesso c'è il briefing, dobbiamo decidere del destino dei nostri ricoverati: fotocopia le consegne, stampa gli esami, e - mi raccomando - quando ti verrà fatta una domanda, quell'unica domanda sulla creatinina del paziente al letto 21, entrato ieri sera alle 20 meno 15 e visitato dal collega, praticamente omonimo di quello al 14 che ha due trapianti di reni alle spalle, temporeggia. Ricorda: la diplomazia aiuta. Un "Non fa schifissimo" mentre ti getti alla caccia della cartella - rimasta in stanza eco dal giorno prima - in genere ti dà l'occasione di accedere al pc più vicino e scandire con voce ferma e suadente "0,86: normale".
Qualcuno ha messo la moka sul fuoco proprio quando comincia il giro-visite. Mentre lo strutturato fa gli onori di casa in stanza 1, ti rendi sonoramente conto che la stampa della radiografia del paziente 18 non può aspettare oltre. Corri in tisaneria, due risate - ma due - cogli infermieri - una tazzina - ma ina ina - di caffé e poi di nuovo in stanza 1 - ovviamente non prima di aver confermato che nel torace del paziente 18 ci siano ancora un cuore e due polmoni.
Il carrello delle cartelle si sposta lentamente di uscio in uscio. Un buongiorno e un arrivederci scandiscono i tempi della processione di medici lungo i corridoi. Medicazioni, STU, consulenze, richieste di esami. Esami esami esami.
Scatta il momento delle lettere di dimissione. Il letterificio apre a mezzogiorno e in genere per le 2 del pomeriggio ha sfornato 5 documenti ancora caldi fumanti e in attesa di correzione. Se sei abbastanza sveglio nel frattempo sei riuscito ad accaparrarti la pasta del letto 6, oggi a digiuno perché atteso in sala di elettrofisiologia. Penne bianchicce, riportate allo stato solido dal microonde, e forse una braciolina di qualche animale - che fatichi a capire come abbia potuto respirare un tempo - ti dividono dalle dimissioni.
"In bocca al lupo per tutto, signora". "Sì, lo può mangiare un po' di salame, ma senza esagerare". "No, il pace maker non fa suonare l'allarme alle casse della Conad".
Nuovo cafferino in tisaneria. Ci sono i ragazzi più grandi, decisamente più tranquilli nonostante sgobbino come negri. Ognuno ha il proprio modo di affrontare le giornate, un equilibrio che trasuda dal modo in cui si muovono e parlano. Dopo il caffè una sigaretta sul tetto ci scappa sempre, così come un consiglio e qualche risata in piedi in cima all'ospedale, a ricordarsi che la vitamina D viene prodotta stando al sole.
Sono già le 4, gli infermieri hanno già messo a letto i primi ingressi. Con un diario clinico ancora intonso ti avvii in corridoio verso il primo arrivato. La formula di presentazione corretta prevederebbe: "Buonasera signore, sono il Dott. xx. Per quale motivo si ricovera?" tuttavia già dopo il trentesimo "Ah dottore un lo so mica. Se n'occupa la mi moglie di queste 'ose" hai imparato a celebrare il rito abbreviato "Buonasera, ha portato documentazione medica con sé?". Mentre spulci i due quintali di ricoveri e visite ambulatoriali, ti annoti le narrazioni del paziente senza essere giunto ancora a capire per quale arcano motivo il destino abbia deciso il vostro fatale incontro. Ed ecco che proprio nel mezzo dell'aneddoto sul mal di denti alla cresima della nipotina, spunta l'oggetto della tua ricerca: "Blocco atrio-ventricolare totale in paziente con recente infarto miocardico acuto già trattato con triplo bypass aorto-coronarico, ipertensione arteriosa, diabete mellito tipo 2, ipercolesterolemia etc." Mal celando la soddisfazione chiedi:"Che terapia assume a casa?" Dopo aver rapidamente vagliato la lista di 17 pasticche, cominci davvero ad avere le idee chiare. Le domande si fanno più mirate, l'intervista stringente ed esaustiva. Ormai ci sei. In un baleno riempi la cartella in tutte le sue parti e cominci a spiegare in scienza e coscienza in cosa consiste la procedura cui il signore sarà sottoposto. Se sei stato bravo, ci scappa una stretta di mano e qualche sorriso.
Ripeti la cerimonia, adattandola di volta in volta. Plasmi il tono della voce, cambi il registro della conversazione, le chiacchiere di cortesia, le domande cliniche a seconda di chi hai davanti, della sua età, genere, istruzione e quantità di fifa. Conosci il paziente, si crea un legame - anche se per poco - ma non siamo qui a parlare di quanto è bello questo mestiere.
Alla fine della fiera ti sei guadagnato la sigarettina in solitaria, sulla scala d'emergenza d'angolo. Attento a non chiuderti la porta dietro. Sopra al piazzale invaso di macchine e gente, oltre la rotonda asfaltata, il terrapieno e il filare di case scantucciate ti perdi per qualche secondo nelle nuvole e nel sole bianco che comincia a scendere sullo sfondo, dietro alla super strada.
Sono quasi le 8 ormai: c'è la resa dei conti con lo strutturato. Imboccato dai più grandi, hai riempito la schede terapeutiche che devono essere vidimate da chi sa già fare il dottore. Hai dimenticato il protettore gastrico per l'ablazione di FA e l'rx torace per l'espianto andava richiesto urgente. Prendendo solo di mezzo bischero, hai passato la prova - per oggi. Aggiorna le consegne per il medico di guardia che è già passato a salutare in medicheria e scappa. Corri senza guardarti indietro. Se non te ne vai via subito qualcun altro ti troverà altro da fare, stanne certo.
Ficcati gli auricolari nelle orecchie e vola in strada. Sono le 9 passate, cucina, mangia, spara due cazzate a tavola. Ti capisco, sei stanco, sei affamato e non hai avuto contatti fuori dalla gabbia per tutto il giorno. Ma che cazzo, dai, non ti addormentare. Smettila di sbadigliare. Non ti togliere la camicia! Ok, via riposa un po' gli occhi. Solo un po'.
Tanto domattina c'è Pollon...
Oh no cazzo, hanno messo Hello Spank.


8 aprile 2015

Aritmie


Sono entrato in reparto l'1 Marzo us, e da allora la mia vita è cambiata. Dio solo sa se non ho provato con tutte le forze a resistere, ma un minimo di 12 ore di quotidiano lavoro di corsia fiaccano anche il più fiero degli spiriti. Chiariamo subito che non mi sono ancora arreso ad un'esistenza di ascetica contemplazione della vita biologica attraverso la medicina. Ho intenzione di vender cara la pelle. In ogni caso, se non stacco un po' e non ricarico le batterie qui ci tiro il calzino, e non lo dico così per dire.
In corsia tuttavia ho imparato qualche cosina interessante su come funziona il cuore e la volevo condividere con voi.
Chiamatela cardiologia per schiappe, ma secondo me è molto efficace.

Il cuore si contrae in maniera ordinata. Il ripetersi stereotipato dei battiti si chiama ritmo. Ogni cuore sano segue il suo ritmo, senza fare pause.
Il termine aritmia  deriva dal greco e significa assenza di moto costante.
Quest'ultima prevede sempre 3 concause:
  1. un fattore predisponente
  2. un fattore scatenante
  3. e un fattore perpetuante
Il primo coincide in maniera banale con come è fatto il vostro cuore: malformazioni, genetica, malattie varie e - per estensione - tutto quello che avete passato e che vi ha lasciato segni.
Il secondo dovete immaginarlo come un'anomalia elettrica, una scintilla in grado di incasinare il vostro ritmo, anche se per un momento soltanto.
Il terzo è di gran lunga il più raro e misterioso. Sostanzialmente è un meccanismo di mantenimento, in grado di rendere eterna un'avaria elettrica del cuore, altrimenti fugace.

Questo giochino apparentemente semplice, a mio modo di vedere nasconde dei risvolti a dir poco illuminanti.

  • A) Il cuore sano è estremamente monotono e ruotinario. Lo so, non sono nella posizione di poterlo dire...ma che palle che fa. Tutto preso dalle cose di tutti i giorni, finisce per scadere in un tum tum ripetitivo e senza attrattiva. E questo è ancora più vero se visto cogli occhi del cuore stesso, che altrimenti non farebbe di tutto per sfuggire al proprio ritmo - e intendo dire di tutto. Tachicardie reciprocanti, extrasistolie, fibrillazioni e blocchi atrio-ventricolari, non sono che alcuni dei mille espedienti con cui i cuori di mezzo mondo cercano di porre fine alla noia. Pensate che esistono anche aritmie mediate dai pacemaker, che sarebbe come dire che il cuore si mette ad utilizzare un aggeggio, che letteralmente serve a a generare un ritmo sano,  pur di dare di matto.
  • B) Ognuno, secondo come è fatto (alias fattore predisponente) cerca disperatamente una scintilla che illumini le cose: una canzone, una birra, una zingarata o una bella mora...che poi non è mai davvero "una qualsiasi" - o almeno non dovrebbe esserlo - ma una perché essenzialmente in linea con come siamo fatti e cosa abbiamo passato. In fin dei conti, questa scintilla di per sé non è né buona né cattiva; siamo noi a dargli il valore positivo o negativo. E nel farlo, è bene tenere conto che il 99% delle aritmie non sono letali, con pochissime approssimazioni.
  • C) Queste cazzate che avete appena letto, per quanto degne del più stupido degli oroscopi, sono scienza. 
Dal canto mio, confesso di aver passato decisamente troppe serate con la speranza - non particolarmente segreta - di incappare in un fattore scatenante, magari uno di quelli che davvero ti sconvolge le idee e ti guasta i piani della settimana. Allo stesso modo temo di dover ammettere di aver pressoché completamente ignorato il terzo punto della questione per un bel po' di tempo. Potrei anche dire che questa ricerca è diventata piano piano il mio ritmo di base.

Il fantomatico fattore perpetuante, a mio modo di vedere, non succede per caso. Non è un incidente di percorso o una fatalità, bensì l'espressione di una precisa volontà cardiaca di non tornare a battere come sempre. E guardate che senza questo trucco, il ritmo torna sempre inesorabilmente al suo personale tum tum. Forse è questo che ci tiene in vita - defibrillatori a parte - ma per fortuna la scienza è ancora molto lontana dal capire come vadano esattamente le cose. Ed io sicuramente lo sono ancora di più.

Adesso torno alla mia vita di minima, fatta di chiacchiere, sigarette, cartelle, lettere di dimissione e poco, pochissimo sonno. Però prima vi volevo lasciare con un ultimo pensiero: a volte è difficile distinguere un ritmo sano da un'aritmia...il che in soldoni significa che quando arriva una crisi, un momento di inceppamento, un periodo di merda - chiamatelo come vi pare - magari è la volta buona per cominciare a fare le cose in modo buono. Io almeno ci spero.



16 marzo 2015

La città dei pini volanti




Il vento mi ha spazzato via il ventisettesimo compleanno, mezza macchina e tre pini di quarant'anni. Le radici divelte hanno spaccato il giardino, aprendo voragini nel terreno abbastanza grandi da inghiottirmi con tutto il cappello. Eppure quei tronchi stranamente orizzontali non sembrano tristi colla loro chioma aguzza e sempreverde. La superficie del prato poi, sollevata in zolle simili a colline, non aveva mai avuto un profilo tanto interessante. Certo, nessuno potrà più giocarci a calcio o a bandierina...ma sono passati talmente tanti anni dal'ultima volta che è successo, che in fondo il danno è solo teorico. Forse è solo l'idea di non poterlo fare più che disturba.
Abbiamo un bisogno innato di serenità e dovremmo sforzarci di appagarlo con pensieri dolci.

Il primo che mi viene in mente è che, per una volta, anche i pini abbiano provato a volare. Il pino in effetti non ha un fusto adatto al volo, la sua struttura massiccia non lo rende adatto al decollo e tanto meno all'atterraggio. Ma le conifere - si sa - sono alberi testardi, e come tali se si mettono in testa qualcosa, non è semplice far loro cambiare idea. Tutti quanti prima o poi finiamo col sentire il prurito di dimostrare di non essere messi lì solo a fare ombra al sole. Se a questo aggiungete il consiglio malizioso di un vento forte e nuovo, la frittata è fatta. Potrebbe anche essere, quindi, che nel cervello di un giovane albero - tanto ispirato quanto poco avveduto - sia preso il ruzzo di provare a spiccare il più goffo dei salti. Chiamatelo pazzo oppure geniale, ma il tonfo che ha prodotto non è passato inosservato e come ogni novità ha fatto proseliti: ecco che in un momento frotte di piante si precipitavano ad imitare il grande volo. Un pino particolarmente calcolatore prendeva la rincorsa ondeggiando prima di qua e poi di là, assieme a lui c'era quello frettoloso che spingeva i vicini, poco più in là uno un po' sbadato finì coll'appoggiarsi a un tetto, mentre uno bastardo decise che la traiettoria migliore passava sopra la macchinetta parcheggiata vicino. Comunque decidessero di gettarsi, il risultato non fu che uno soltanto, e cioè una città ricoperta da tonnellate di legno fracassate a terra assieme a tegole e mattonelle. Uno spettacolo che confonde e disorienta, un po' come l'arte contemporanea. A noi adesso non resta altro che guardare quei fusti sdraiati, colle radici per aria, e chiederci se tutto questo abbia un senso davvero o se siamo noi a non saperlo cogliere.

Il ciclone, quando arriva, 'un t'avverte. Passa, piglia e porta via. E a te 'un ti resta che rimanere lì, bono, bono a guardare e a capire che se 'un fosse passato, sarebbe stato parecchio, ma parecchio peggio.


A me, però, fa sentire solo sradicato.

1 marzo 2015

Puzzled 3.0 - Mancanze.



In questa settimana senza lavoro – a causa di un piccolo ma fastidioso intervento che mi ha fatto vincere 10 punti di sutura appena sopra l’inguine – è facile sentire la mancanza. Di cosa? Dei jeans, tanto per cominciare, perché la ferita duole sotto la presa dei pantaloni, nonché degli slip. Che altro? Beh sono qui fermo a letto – il vecchio lettone di casa Biagini, dove non dormivo da non so neppure io quando - e non ho nessuno da chiamare o il coraggio di farlo. Temo che questo stato di prostrazione fisica mi abbia reso fastidioso all'esistenza altrui.
E tutto questo pensare, dicevo, mi fa sentire le mancanze.

Io credo che una persona sola sia in grado di fare un numero molto limitato di esperienze. Per fare un paragone artistico, puoi passare tutta la vita sforzandoti di creare il tuo verde più brillante e il tuo celeste migliore, ma dovresti imparare quasi subito che - da soli - non fanno quasi mai una primavera. I colori degli altri dovrebbero essere visti come estensioni della tua tavolozza, un punto di arancio che non conoscevi, una sfumatura di lilla che non credevi poter realizzare. Certo, non tutti i quadri che verranno fuori saranno dei Monet o dei Van  Gogh, ma mischiando e sperimentando qualche tramonto decente ogni tanto verrà fuori.



Un gran giro di parole per dire due cose semplici: A) non si può vivere da soli, e B) non esiste qualcuno che ci completi. Eh no, perché le sfumature che puoi creare assieme alle altre persone è letteralmente infinito. Non voglio però essere frainteso, e quindi userò termini un pelo più prosaici. Non credo che il miglior modo di vivere sia trombare col pianeta intero tentando di completare le infinite combinazioni di razze e perversioni possibili, ma neppure che una persona possa ritenersi pienamente realizzata in un’altra soltanto, né dovrebbe aspirare a farlo. Questo vale per l’amore, l’amicizia e tutto il resto a pensarci bene. E ve lo dico perché quelli che mi mancano davvero oggi sono tutti i colori che ho creato nella mia vita passata. Mi sento solo? Può essere.

Ci sono legami che si creano senza scegliere. La famiglia, per esempio, così come il vicino di casa rompicoglioni o il collega cialtrone. Ce ne sono altri invece che senza scegliere, si sciolgono. Ho quasi 27 anni, e penso che il numero di persone che ho perso lungo la strada, sia maggiore di quello che sono riuscito a tenere qui con me. Sarà razionale, ma non è molto allegro come pensiero.

Una di quelle cose di cui non crederesti mai di sentire la mancanza quando cambi città, è il senso di disagio e goffaggine che pochissime creature al mondo ti instillano dentro le spalle e le ginocchia, come piccoli aghi che ti pungono sul vivo. C'era qualcuno così a Firenze, ed è inutile dire che non sia mai riuscito a fare niente di rimarchevole in loro presenza - se non presentare timide e idiote versioni di me stesso.
Chiamatelo avere una cotta o un debole per chicchessia...fatto sta che un giorno ti alzi e realizzi che non capiterà più di incrociarle per sbaglio ad un aperitivo o in fila alla Conad. E capisci anche che nonostante anni di silenzi, di attese e di rinunce, da qualche parte in fondo al cervello avevi sempre pensato che prima o poi sarebbe arrivata l'occasione giusta.
Non è successo, e forse quello che più ti brucia non è tanto il fallimento di questa ricerca, quanto il non aver più nessuno da cercare con lo sguardo mentre scegli il dentrificio. Capisci che più di quegli occhi in particolare, era quello che provavi sotto il loro sguardo, anche se invisibile dall'esterno e sostanzialmente spiacevole, ad essere speciale. Era una parte di te, di quel te che vorresti essere, che vorresti provare a realizzare e che devi consolare o premiare quando chiudi gli occhi sul cuscino. Era una parte di te, e non c'è più.

C'è un film molto bello, si chiama "Adaptation" - italianizzato come "Il ladro di orchidee" - che parla proprio di come vivere non coincida quasi mai col sentirsi vivere. La pellicola è autobiografica, e tratta di Charles Kaufman, uno sceneggiatore che non riesce a scrivere il film che voi stessi state guardando. Sembra molto complicato, ma non lo è.

Charlie Kaufman: There was this time in high school. I was watching you out the library window. You were talking to Sarah Marsh.
Donald Kaufman: Oh, God. I was so in love with her.
Charlie Kaufman: I know. And you were flirting with her. And she was being really sweet to you.
Donald Kaufman: I remember that.
Charlie Kaufman: Then, when you walked away, she started making fun of you with Kim Canetti. And it was like they were laughing at *me*. You didn't know at all. You seemed so happy.
Donald Kaufman: I knew. I heard them.
Charlie Kaufman: How come you looked so happy?
Donald Kaufman: I loved Sarah, Charles. It was mine, that love. I owned it. Even Sarah didn't have the right to take it away. I can love whoever I want.
Charlie Kaufman: But she thought you were pathetic.
Donald Kaufman: That was her business, not mine. You are what you love, not what loves you. That's what I decided a long time ago.



1.0   2.0

11 febbraio 2015

La voglia di scrivere


Cominciò a truccarsi che non aveva ancora quindici anni. Nostalgica dei bei tempi andati che non aveva mai vissuto, sapeva già a memoria mezzo repertorio dei Pink Floyd senza saperne tradurre mezzo verso - come vorrei che tu fossi qui, a parte. Disprezzava la sua generazione, e benché non amasse neppure quella precedente, niente le dava più fastidio dell'ignoranza dei suoi coetanei. Mucchi di ragazzetti senza un pelo che gironzolavano attorno a gallinelle senza stile o un'idea originale - tranne quella di fare a gara a chi sfoggiava lo zaino del momento o il piumino da 500 euro, nonostante il termometro non scendesse mai sotto lo zero. Mai. Lei no, lei il freddo lo amava, lo bramava. Lei sognava la Svezia e la Germania, sulla scia dei ricordi romanzati dei viaggi di Luca. Lo stesso Luca che aveva visto i Metallica dal vivo, che aveva l'autografo di Billy Corgan, che aveva più dischi che t-shirt, che le aveva fatto un cd col meglio dei Sonic Youth. Insomma, il primo amore, di quelli che solo una ragazzina può sognare di avere con un ventenne sfattoncello. Ecco che riaffioravano le scene tragicomiche di pomeriggi passati a trascrivere sul diario ogni singolo bacio, giro in macchina o mezza cannetta fumata con quello che all'epoca assomigliava moltissimo al più grande figo dell'universo. Le balenavano nella testa le serate fuori dal bar Minerva, col tavolino ricoperto di Moretti da 66 e le stronzate che volavano nell'aria mischiate al fumo e alla condensa del fiato troppo caldo nelle notti invernali. Ricordava i brividi - lei che il freddo lo amava; ricordava lui sbronzo che faceva il coglione cogli amici fino alle quattro, e lei che doveva litigare per andare a letto alle undici e mezza; ricordava come venne a sapere di quella troia di Veronica, che lui riportava a casa da quasi un anno e mezzo; ricordava infine lo sguardo di Claudia e le sue labbra così rosse nella luce giallognola del neon proprio sotto la tettoia/veranda del Minerva. L'unica cosa che proprio non ricordava, a pensarci bene, era la Svezia. Alla fine non ce l'aveva mai portata quel deficiente. Ridacchiò. In compenso c'era stata la Spagna - lei che il caldo lo odiava - e l'Hostal Paraiso, a due passi dal quartiere gotico a Barcellona. C'era stato lo specchio grande colla cornice di legno tarlato e c'erano state le notti tra le lenzuola coperte di cenere e capelli neri lunghi e fini come crini di cavallo. Com'erano stati belli quei capelli, quelli sì che le mancavano. L'ultima volta che l'aveva vista, portava un caschetto rossiccio, troppo rossiccio per incorniciare quelle labbra e quelle gote un filo troppo tonde - come sempre. Quanti anni erano passati? Il numero dieci le fece tremare un momento la matita davanti allo specchio. Si fissò nei grandi occhi castani dal taglio lievemente imbronciato, studiandosi il naso piccolo e stiracchiandosi la pelle sugli zigomi verticali. Cos'era rimasto della diciottenne in guerra col mondo e colla gente? Da qualche parte, sepolti sotto strati di cheratina e carne dovevano esserci ancora gli aloni di nero che per un secolo le avevano contornato le cornee. Non si vedono più. Voltò un momento lo sguardo alla libreria. Le pile di romanzi e di cd erano ancora lì e sorrise, mentre un brivido di sollievo le risalì lungo le spalle. Le sembrò di essere sgravata da quella massa infinita di code per il bus, di corsi di filosofia della politica o di psicologia della memoria, di serate a bere e a fumare, di primi appuntamenti interessanti e di secondi deludenti, di pomeriggi in divisa alle casse dell'Esselunga, di tramonti in fila al casello dell'uscita dell'autostrada, di weekend in treno per andare a trovare l'ex di turno, di aperitivi colle amiche a ridere e a parlare di tutte le altre, di notti da sola o con qualcuno...che si chiama età adulta. In quel momento esatto, ritta davanti al piccolo specchio Ikea incollato alla parete, si sentiva in pace. Si sentiva una, una sola - o meglio - tutt'una. In quel preciso istante però realizzò anche che quel tutt'uno non assomigliava granché a quello che una quindicenne truccata da panda sperava di diventare. Ma il pensiero non bastò a scrollarle di dosso quell'aura di serafica coscienza di sé stessa. Pensò anche che nessuno mai scriverà due righe su di lei. Ma si sbagliava.


Scusate.

24 gennaio 2015

Director's cut - Scene

Sei già in piedi, di fronte alla porta blu dalla maniglia verticale. Lato destro del vagone, come sempre.
Un gradino metallico e poi di passo svelto lungo il binario verso il grigiume di un pomeriggio invernale che si spegne assieme alla sigaretta.  Alle tue spalle una lama infuocata squarcia le nuvole fino a farle sanguinare di arancio e rosa. Se non ti fossi fermato un momento sul primo gradino a fare l'ultimo tiro, avresti perso uno di quei tramonti che ti sconvolgono le idee.


Sembra un film, lungo abbastanza perché nella memoria ogni risveglio si perda assieme a quello precedente, e così i mattini e i pomeriggi, senza intervalli o pause pubblicitarie. L'alba fredda e gentile spunta sopra l'Arno per specchiarsi sulla tua visiera, per poi confondersi alla pioggia fine o grossa, che batte sul casco e sul giaccone di pelle mezzo scolorito, in una scena che si ripete ogni mattina dopo la sveglia. Quindi arrivano i camici, ancora senza targhetta o nome - di quelli che in fondo stanno ancora bene addosso agli studenti - che vagano immersi nella luce dei neon caldi e nell'inconfondibile verdolino delle pareti, a prescindere dall'ora o del giorno. Gli ospedali sono tutti uguali, così come l'aroma metallico dei caffè in piedi davanti alla macchinetta o il gusto sciapo del tramezzino al tavolino appena fuori il dipartimento. Un milione di extrasistoli o forse più, tratti ST che non sotto-slivellano mai e chiacchiere di allegria, curiosità, cortesia, pazienza, o blanda sopportazione.

Bomba, libera tutti! Inforchi il motorino come fosse una puledra e via giù lungo l'asfalto e il cemento a scoprire la sera e le piazze. Caffè, aperitivo, pasta, pizza, birra, vino, amaro e cocktail. Facce nuove senza nome, altre di cui non lo ricordi e altre ancora di cui lo sai seppur non te ne freghi un cazzo. Tante facce. Tante comparse che si muovono sul fondale della scena, attorno a un capannello di amici o amiche più o meno tali, che fanno da cornice alla tua sete e alla tua fame. Fame ingorda di novità, di racconti e di ricordi. La parola gira a turno come fosse una canna, e ti porta la storia di una notte in spiaggia sbronzi, del capodanno a Praga piegati come panni, oppure il commento tecnico su una ricciola e i suoi leggings attillati, la recensione sul barista trombatore o della migliore gelateria in città. Il gruppo muta di bevuta in bevuta, per poi sparpagliarsi alla classica domanda infelice "Chi viene a ballare?". Una musica che certo non è la tua - né di nessun altro - finisce di intontirti prima di trovare la strada di casa, proprio accanto alla piazza delle chitarre e dei carrelli della spesa pieni di bottiglie. Chiudi gli occhi sul grande letto chiaro, poche ore prima che rinizi il film.



Stasera sono chiuso in camera. Ci sono comunque voci che passano le pareti di mattoni e suoni che ho innalzato per ritagliarmi qualche minuto senza camice o cappello. Mi aspettano per cena. In realtà non è che aspettino proprio me, ma cambia poco il senso della frase. Adesso è meglio che vada...non tanto per soddisfare l'appetito, quanto per tutelare il buon umore, che forse è rimasto indietro, qualche giorno fa, a guardare il tramonto.

13 gennaio 2015

Il paninaro di fiducia - La Fame



Vivo da solo...da un po' - anche se la solitudine sinceramente cerco di scansarla come i gatti neri. In effetti, non ho mai vissuto solo solo...ho sempre condiviso la casa con altri inquilini - ma ci siamo capiti, no?
Dividere gli spazi con persone che non hanno il tuo stesso sangue nelle vene ti forza a dover essere sempre un pelino meno cagacazzo di quanto tu non sia per naturale inclinazione. E questo - con le dovute eccezioni - è un bene, almeno per me.
Non avere né il modo né il tempo di poter assecondare la malinconia di un pomeriggio piovoso produce il doppio effetto di poter essere una persona costruttiva e inserita in una rete di rapporti interumani non basati sulla mera sopportazione reciproca...al tempo stesso il costante tentativo di smussare i propri angoli per adeguarli a quelli di chi gironzola per casa tua, rischia di farti dimenticare cosa ti piace davvero.

Perché vi dico questo? Probabilmente perché oggi a pranzo ho mangiato solo un pacchetto di cracker alla macchinetta di Cisanello, dopo aver passato una giornata gomito gomito con una strutturata che non conosce il concetto di pausa pranzo. Se questo non bastasse, nonostante abbia cambiato casa e città, divido ancora la casa con vegetariani. Ormai le verdure mi perseguitano. E pensare che c'era un tempo in cui il pasto era fondato sulle sacre istituzioni di salsiccia, nduja e pancetta. Vi giuro che mi sogno ancora la mitica carbonara di Ciccio, rigorosamente cucinata alle 11 di sera, dopo la chiusura di ogni supermercato e con quelle 7 o 8 Morettone da 66 cl ad innaffiare le conversazioni.
Quello che mi manca di tutta quella dieta grassa e unta però, forse sono le risate sguaiate e le offese nei vari dialetti di casa. Gli scherzi a tavola al cospetto di zucchine e melanzane hanno invece un sapore eccessivamente fresco e salutare, che sa più di dieta ipocalorica che di franco divertimento - e non perché i miei coinquilini non siano super simpatici. Dev'essere un effetto secondario del broccolo: anche le risate sono sciape.

Chiariamo un punto cruciale: i miei gusti sono quantomai elastici, ma questo non significa che mangi tutto. Qualche post fa credo di aver già esposto più che chiaramente come la penso sul fast e/o junk food. A dirla tutta neanche il kebab mi fa impazzire...tuttavia, come dicevo, vivere da solo costringe ad adeguarsi al mondo. Specie quando trovi che mangiare e cucinare da soli sia la quintessenza della tristezza. Lo confesso, soffro di depressione da frigo vuoto.



Perché poi fare la spesa quando puoi mangiare fuori?
Di conseguenza, oggi, parliamo di paninari.
Parto col dirvi che negli anni ho messo a punto un metodo tutto personale e mafiogeno per ingraziarmi baristi e ristoratori. 

  • Anzitutto, la prima volta che arrivi in un locale ti presenti al disgraziato/a dietro il banco con una richiesta qualunque, seguita da un bel "fammelo bono mi raccomando che sto cercando un posto di fiducia per prendere un cocktail/panino/stinco maiale sui fagioli borlotti". Ci sono molte scuole di pensiero, però. Mio fratello per esempio ha un approccio più spicciolo...roba del tipo "mi hanno detto che qui si mangia meglio e costa meno che nell'altro posto". Dipende molto dalle vostre attitudini.
  • A questo deve - e dico deve - seguire la presentazione personale. Nella fase attuale della mia vita, questa parte è facilissima e di effetto sicuro, perché al "Ciao mi chiamo Biagio" segue il "e sono nuovo in città" che fa leva sulla naturale disposizione socievole dell'oste, il quale in genere ti fa una personale panoramica della città, dei quartieri, della vita diurna o notturna che sia. Consiglio personale: non vi sbottonate troppo. Un briciolo di mistero deve sempre rimanere ad alimentare la conversazione.
  • Mai dimenticare il nome di un/una barista
  • La prossima volta che vai nel locale, portati dietro altre persone. Meglio se non ci sono mai state, così puoi fare lo splendido salutando al volo il gestore chiamandolo per nome o con una bella strizzata d'occhio. "Bada quanta gente t'ho portato!". Se avevi fatto colpo, lo vedi subito. Barman e cameriere sono abituate al baccaglio da parte della clientela...ma se si ricordano il tuo nome, è fatta.
  • Passa sempre a salutare quando passi di lì vicino. Tanto più per le feste. La vita dietro al banco, può essere noiosissima specie fuori dall'orario di punta, e vedere qualcuno sorridente che viene a vedere come stai, senza volere null'altro, fa sempre piacere. A me lo farebbe di sicuro.
  • Se siete dei nostalgici dei film noir di una volta - o semplicemente avete poca fantasia culinaria/alcolica - potreste chiedere sempre lo stesso cocktail o lo stesso piatto. "Ale, fammi il solito" ed ecco che arriva un Negroski in tutta la sua splendida aurea arancione. A me il solito suona tanto figo.
  • E poi la regola più importante di tutte: non fare il simpatico o il premuroso o l'interessato per avere lo sconto. La cosa importante è mangiare o bere bene, e come dicevo prima, il sapore delle cose dipende tanto da chi c'è intorno. Broccoli a parte.
Chiaramente questo è il mio metodo, il che significa che non ha una pretesa di universalità. Dovete lavorare sui vostri punti di forza. I miei indubbiamente sono un naso facilmente riconoscibile e una scarsa timidezza. Anche l'importante routine alcolica probabilmente aiuta a fare breccia.
Riletto in maniera impersonale, il mio decalogo potrà sembrare la Bibbia della persona sola in cerca di compagnia. La cosa mi dovrebbe lasciare un po' perplesso, in effetti. 

Comunque sia, così facendo ho già un caffè di riferimento per...il caffè, appunto. Si chiama la Sapienza, ed è proprio sotto casa mia. Un posto abbastanza anomalo, in cui le due bariste si mangiano le paste più bone e ti prendono rigorosamente per il culo per 5 minuti prima di prepararti il caffè e raccontarti gli affari loro come se fossi di famiglia. Vi assicuro che una colazione può durare un'ora partecipando al teatrino che si genera spontaneamente tra personale e avventori.
C'è poi il mio posto preferito per bere, il Bar Ibaldi. Un buchino allegro in Piazza Garibaldi, tappezzato di post-it e gestito dal mitico duo Ale/Tommy che tra un'offesa e una Madonna ti fanno sentire quella sgarbata ospitalità che puoi trovare solo nella Toscana più vera. Sinceramente è stato molto bello avere due persone con cui prendersi per il culo sul serio fin dalla prima settimana a Pisa.

Tutti i miei locali della nuova città non ve li racconto però...anche perché devo ancora finire di lavorarmi altri gestori (e perché sennò non fa lo stesso effetto quando vi ci porto).
In compenso però vi narro del mitico Sanjeev, il gestore del miglior negozio di alimentari di Firenze. Un amico, di quelli che vai a trovare all'ospedale se si rompe una gamba. Dopo il lavoro (più o meno alle 2 di notte) venne anche a casa a prepararci i piatti della tradizione napoletana che ha imparato quando faceva il cuoco da ragazzo. Fu lui a regalarci Manuela, la mascotte di Via Verdi 13.
Poi vi cito Paolo del Club del Gusto, Ali Moon del Gustami Kebab, Marco e consorte di Pane e Toscana, del Biondo dell'Enoteca dei Macci e via dicendo...ma ora mi fermi perché quest'elenco comincia ad assomigliare a un discorso di ringraziamenti - e io non ho vinto nessun premio o titolo. Forse giusto quello di bischero.

11 gennaio 2015

Il Nido del Cuculo



Parliamo di normalità.
Questo argomento mi è molto caro, per non dire che è diventato un'ossessione negli anni. Originalità, critica del senso comune, abolizione del concetto di gente...sono tra le poche idee in cui credo fermamente. Tuttavia, oggi vi risparmio il pippone autocelebrativo su quanto io possa essere bravo a sbattermene di tutti o a inventarmi un guardaroba fuori dal coro.

Vorrei invece parlarvi di normalità in un senso più preciso, almeno apparentemente, ossia quello medico. "Come fa un dottore a dire che un tizio sta bene? Voglio dire, decidere se uno è malato, è facile...ma come decide il medico chi sta bene?"
Il Dott. Biagini potrebbe rispondere citando le definizioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità di salute e di malattia che sono assolutamente condivisibili e rincuoranti - nonché un tantinello comode.
Io sinceramente la penso un po' diversamente però.
Premetto che fare un discorso generale su qualcosa di inverosimilmente complesso come la salute, fa dire delle cagate anche al più accorto dei professoroni...e di conseguenza mi limiterò a fare due esempi.
  • Numero 1: per dire che un cuore è malato, nel 99% dei casi è sufficiente fare un esame obbiettivo, un ecg, un'ecocardiogramma e un paio di esami del sangue. Se questi  parametri sono alterati, verosimilmente c'è qualcosa che non va.
    La domanda logica che segue, è "Chi ha deciso i valori di riferimento che indicano una possibile malattia?" l'osservazione empirica e, soprattutto, la statistica. Esempio: il 99% dei soggetti senza malattia coronarica ha valori di troponina I inferiori a 10 ng/ml, per cui avere un valore superiore è probabilmente dimostrazione di cardiopatia ischemica; se poi prendiamo la mortalità di tutti i soggetti e vediamo come varia in funzione della troponina I, ci accorgiamo subito che coloro che presentano valori alterati muoiono molto prima di quelli con valori normali. Chi è che sta bene? Chi ha valori normali - con pochissime eccezioni.
  • Numero 2: Per dire che una mente è malata, gli esami di imaging e di laboratorio ci aiutano solo ad escludere una causa organica (per lo più una lesione cerebrale o uno squilibrio ormonale) e quindi ci si basa sostanzialmente sui sintomi, che non possiamo misurare come gli enzimi, ma che possiamo appioppare - con una discreta approssimazione - alle persone.
    Anedonia, disforia, irritabilità, distimia etc...una lunga serie di parolone per descrivere comportamenti ritenuti non normali (in quanto le persone sane, statisticamente, non li mostrano e soprattutto, non te li raccontano). Dovrebbe essere chiaro già da adesso che qui la decisione su chi sta bene e chi sta male, comincia ad essere molto più sfumata.
Gli anglosassoni sono molto pragmatici - è la loro forza - e a questo tipo di problematiche rispondono sempre con un bel questionario dicotomico. Ne esistono centinaia, eppure le risposte si limitano quasi sempre a sì/no. Dormi bene? Pensi mai alla morte? Credi di essere meno felice degli altri? Sulla base delle risposte si calcola poi un punteggio - anch'esso validato da centinaia di migliaia di soggetti sani o malati - che ci dice se quella persona ha una malattia o meno. Il che, in soldoni, si traduce poi in prescrivere una terapia o no. E qui si apre un altro problema, o meglio, una voragine. Eh sì, perchè quasi sempre questi farmaci hanno un effetto sintomatico, ossia non curano la malattia ma si limitano a ridurne i sintomi.
Se avete seguito il ragionamento, avrete anche capito che se un paziente non presenta più quei sintomi (o comunque vengono attenuati) evidentemente il punteggio ottenuto al questionario che mi ha portato alla diagnosi, cambierà...per cui io, medico, potrei anche dire di averlo curato (o di averlo intontito al punto giusto).

Le soluzioni che oggi offre la psichiatria sono a mio modo di vedere inadeguate. I farmaci antipsicotici, alcuni antidepressivi e gli stabilizzanti dell'umore sono tra classi di farmaci più sporche (nel senso che non funzionano su un solo recettore, ma hanno miliardi di effetti diversi), tanto è vero che vengono prescritti in mille patologie diverse - e talvolta cercando di sfruttare quello che viene considerato un effetto collaterale, e non quello principale. Questo lo dico a dimostrazione che, in buona sostanza, non solo sappiamo pochissimo di come funziona la mente umana, ma che oltretutto "ci divertiamo" a dare sostanze senza poter sapere davvero il loro effetto sui pazienti. Gli psicofarmaci cambiano il tuo modo di pensare - il tuo modo di essere te stesso.
Attenzione, ciò non significa che non sia giusto o necessario tentare una terapia! Il primo compito del medico - dopo quello di non nuocere - è quello di aiutare, sempre. Ma appunto per l'estrema complessità di decidere dove sta la salute e la malattia prima di fare una diagnosi e di dare terapia, ci si dovrebbe pensare molto. Il farmaco è una risposta alla necessità di rispondere ad una richiesta di aiuto...ma lo psicofarmaco è qualcosa di cui ci si vergogna, di cui si ha paura e che si porta dietro l'etichetta di matto.
Io non sono nessuno per insegnare a fare il medico, tanto meno lo psichiatra. Sono però un testimone di come le cose non vadano assolutamente come si legge sui libri di medicina e di come lo stesso stato italiano non offra strutture dignitose per cercare di favorire l'inserimento dei diversi.
Il reparto di psichiatria è un'esperienza agghiacciante, senza il camice.

Ci tengo a dire che la mia in fondo è solo una provocazione che certo non vuole minare la validità della psichiatria in quanto tale. So perfettamente che alcuni di questi farmaci sono estremamente efficaci, per non dire insostituibili. Il punto su cui volevo farvi arrivare a ragionare è un altro: "chi dà il diritto a me, medico, di appiccicare una diagnosi di malattia mentale a qualcuno?" L'unica risposta che posso accettare è "se ritengo che faccia bene a qualcuno".


Per come la vedo io schizofrenia, disturbi di personalità, nevrosi etc. sono modi diversi di essere. Ed essere diverso, non sempre si sovrappone a malato. Potrà sembrare una cazzata, ma essere "matto" non per forza vuol dire stare male. Non sono qui a questionare se Mimmo Scialatiello - per tutti Goku - convinto di potersi trasformare in Super Sayan 3 e pertanto saltato dal 4° piano di casa invocando a gran voce la Nuvola Speedy, sia affetto o meno da malattia mentale...Tuttavia di sfumature tra questo tipo di manifestazioni e il vicino "di fuori come un terrazzo" perché non parla mai con nessuno, vaga senza metà apparente con la sua bicicletta e passa le giornate fissando le auto che passano, direi che ce n'è più di una.
Non c'è scritto da nessuna parte che il modo normale di essere sia quello giusto o il migliore. Il criterio con cui siamo portati a crederlo - senza averci quasi mai riflettuto per più di 2 minuti - è perché lo fanno quasi tutti, appunto.
La malattia mentale non sempre è sofferenza in sé stessa. Il dolore in gran parte deriva dall'incapacità di mettersi sullo stesso piano del resto del pianeta - dei normali, se preferite. E guardate che questa è un'esperienza che tutti abbiamo provato. Siamo noi stessi che ci facciamo male a vicenda in questo giochino macabro che si chiama "la gente", al quale non possiamo sottrarci - ma solo aderirvi o opporsi. Molti "matti" non hanno la forza di fare nessuna delle due cose, col risultato di finire schiacciati e tagliati fuori. E non accade perché sono folli, ma perché confrontarsi colla società è difficile, per tutti.
Oggi non si muore più di peste o vaiolo...ma in compenso abbiamo la depressione, e questo vale anche per i normali. Anzi, sono proprio gli psicopatici, i lunatici e gli squilibrati a riuscire a sbattersene un po' di più del mondo e delle sue regole. Forse è per questo che non vengono visti di buon occhio. Credo anche che anche la pietà dei medici, conoscenti, familiari etc. in tutto questo non sia di grande aiuto.

Noi pretendiamo di insegnare cosa sia lo stare bene, quando non c'è mezza persona che ci riesca veramente fino in fondo. Troppo spesso confondiamo l'essere sano, con l'essere normale. Mentre della salute se ne deve occupare il medico, della normalità a mio avviso nessuno ha il diritto di farlo.
L'unico atteggiamento possibile e auspicabile - e difficilissimo, ovviamente - è quello dell'accettazione. Una persona diversa, come non ha bisogno di sentirsi malato e alienato, non ha neanche bisogno di essere compatito o giustificato. Ci sono cose che non possono essere cambiate, ma solo accettate, e questo vale anche per la malattia.

La conclusione di tutta questa invettiva è che si fa presto ad appioppare l'epiteto di pazzo su chi non è normale, ma aldilà della stigmata sociale che questo nome si porta dietro, non aiuta veramente un cazzo di nessuno. Sarei curioso di leggere un referto psichiatrico di Van Gogh, intossicato tutta la vita da dosi da cavallo di luminale - che tra le altre cose fanno vedere aloni colorati attorno agli oggetti - o quello di Goya, affetto da encefalopatia da piombo, che gli causò l'alterazione della percezione cromatica - e la vista di qualche mostro qua e là.
Mi sapete dire una sola persona normale che abbia fatto qualcosa di veramente eccezionale?
In fondo Dalì diceva "L'unica differenza tra me e un folle è che io non sono folle".

La follia fa paura, ma personalmente mi spaventa di più il normale. E ancora di più il numero incredibile di volte che ho sentito dire "questo è psichiatrico" da colleghi o infermieri riferito al paziente di turno, colpevole 90 volte su 100 di essere un rompicoglioni o un fifone.

Una coda di 12 isolati di normali
I matti sono tanti, credo di saperne qualcosa. E se rivedessimo un momentino il criterio con cui queste persone sono reputate tali, credo che sarebbero i normali ad essere in netta minoranza. E sarebbe un bene, lo credo davvero.

7 gennaio 2015

FI - PI - (PT)

Ricominciare a scrivere dopo tanto tempo non è mai facile. Trovare le parole giuste è uno sport che va praticato ogni giorno, altrimenti ogni riga diventa simile all'altra mentre i periodi si fanno macchinosi e dal retrogusto di temino di seconda liceo. Le parole sono lo specchio del pensiero: una mente allenata a esprimersi chiaramente, è una mente che pensa bene.
In fin dei conti quello che hai da dire conta poco, se non sai come dirlo.

Io di cose nuove da raccontarvi, dal concorso di specializzazione al primo giorno di lavoro a Pisa, ne avrei proprio tante, ma non mi sento in grado di farlo bene in questo momento. Anche se è un gran peccato lasciare tutti questi ricordi a impolverarsi sulla pila delle pagine che non ho mai scritto, alla sera sono troppo stanco o troppo eccitato per buttare giù due righe. La verità è che mi sto sforzando di sfoggiare la migliore versione del Biagio per troppe ore al giorno, rischiando di vivere tutte queste giornate come se fosse la vita di qualcun altro. Trovo che il grande inizio assomigli alle vacanze, almeno in questo.

Sinceramente quello che manca qui è qualcuno che mi conosca un po', con cui parlare senza diffidenza, curiosità o il bisogno di dimostrare un bel niente...ma ci vuole tempo e tante - tante - altre bevute per trovarlo.

Intanto Simply Biagio si rifa il trucco per l'ennesima volta!
Eccovi la nuova immagine di sfondo...(mentre qui potete rivedere tutte le versioni precedenti)


M'è toccato riaddirizzare la torre perché altrimenti non riuscivo a creare un tema simmetrico, ma in compenso è stracarica di citazioni musicali e cinematografiche. Sapete riconoscere tutti i riferimenti?


La nuova immagine di intestazione invece è un omaggio a una delle mie pellicole preferite: "Qualcuno volò sul nido del cuculo". Un gran bel film sui matti e su un tizio che viene internato, un po' per sbaglio e un po' per via del destino. Il fatto che dietro il recinto di filo spinato ci sia Firenze è ovviamente del tutto casuale.

Con questa vi saluto, confessandovi che avevo seriamente intenzione di chiudere il blog fino a pochi giorni fa. Adesso però la voglia di scrivere sta tornando, e prometto di rifarmi vivo di quando in quando.

Ciao Bestiacce.

Ahhh...prima che mi dimentichi, vi volevo lasciare il pezzone del mio 2014.