15 febbraio 2016

The Hateful Eight - L'odioso ottavo film di Tarantino



Sono cresciuto a pane, Tarantino e spaghetti western. Nonostante una buona educazione e anni di convivenza con persone di ogni genere e colore, non posso negare che un certo umorismo dal sapore squisitamente razzista e sessista riesca sempre a strapparmi qualche grassa risata compiaciuta. Questo mi rende una persona spregevole? Probabilmente sì, ma la cosa non mi turba molto. Vi dirò di più, quando mi sono seduto sulla poltroncina rossa al buio e davanti a me la scritta "l'ottavo film di Tarantino" appariva a lettere bianche su fondo nero, ho provato quella rara sensazione di essere il tizio giusto al posto giusto e pure circondato da miei simili.
Credo sia importante fare questa premessa per non essere frainteso in quello che sto per dire: The Hateful Eight è una delusione.

[ATTENZIONE: no spoiler - o quasi, non più del trailer comunque]
Intendiamoci bene, questo non è certo il primo buco nell'acqua del regista di Knoxville, alla cui lista di mezze cagate e filmucci dobbiamo ascrivere anche Jackie Brown e Grindhouse - A Prova Di Morte. Una media di 5 capolavori su 8 è un risultato invidiabile, ma evidentemente nel DNA di Tarantino è insita la tendenza a dover commettere un passo falso prima di sfornare pellicole del calibro di Pulp Fiction o Kill Bill.

Cerchiamo di mettere a fuoco le cazzate qui commesse da Quentin: mentre Jackie Brown peccava per una trama troppo lineare e la quasi totale assenza di originalità stilistica - il tutto condito da una delle peggiori interpretazioni di De Niro - il nuovo attesissimo lungometraggio non riesce a centrare l'obbiettivo per un'insopportabile pochezza di contenuti e un'insostenibile dilatazione dei tempi narrativi, che rendono i primi tre quarti abbondanti di film di una noia mortale.
Oltre a ciò, il film si distingue per dialoghi di volgarità epica anche rispetto al tutt'altro che politically correct Pulp Fiction. Diciamo pure che il numero di gomitate che "quella brutta troia succhiacazzi" di Daisy prende nei denti dall'inizio del film, smette già di essere simpatico raggiunta la dozzina - cosa che avviene nei primi venti minuti di riprese. Di gran gusto ho trovato anche la scena del pompino sotto la neve, che si distingue non solo perché l'unica girata in campo aperto - salvandoci dalla claustrofobia che domina il resto del film - ma soprattutto per la totale idiozia della cosa in sé. Infine riguardevole è anche il livello di splatter raggiunto tra teste spappolate, facials di vomito e palle esplose che rendono degno omaggio a quel cinema d'exploitation tanto caro al regista - cosa che aveva già più che abbondantemente dimostrato nell'altro flop A Prova di Morte.

Il punto debole del film comunque è sicuramente la trama: la pellicola non ha alcuna vicenda da narrare e si impernia sulla semplice idea - più o meno ben sviluppata - di mettere assieme otto loschi figuri dal grilletto facile. Mi immagino Tarantino che discuteva della sceneggiatura con quel coglione di Rodriguez dicendo; "Prendiamo una troia criminale, un bounty killer yankee, uno sceriffo mezza sega, un messicano del cazzo, un frocio di inglese, un generale sudista decrepito, un mandriano mammone e un fottutissimo negro cazzuto, li chiudiamo in una stanza e vediamo cosa succede". Indovinate voi. Anche il tentativo di dare un taglio originale alla storia, introducendo un narratore onnisciente che dialoga col pubblico tra una scena e l'altra, si traduce in fin dei conti in un mero esercizio stilistico, che non salva il film da una sostanziale piattezza - pistolettate e battutacce a parte.



La scelta del titolo, traducibile in L'Odiosa Ottavina, ci fornisce qualche altro spunto di riflessione circa le intenzioni originali dietro la sceneggiatura e i personaggi. Tarantino riutilizza due dei suoi attori feticcio, l'onnipresente Samuel L. Jackson (Pulp Fiction, Jackie Brown, Django Unchained e cammeo in Kill Bill e voce narrante in Bastardi Senza Gloria) e Michael Madsen (Le Iene, Kill Bill), assieme ad altri veterani Tim Roth (Le Iene, Four Rooms), Kurt Russell (Grindhouse) e Walton Goggins (Django Unchained) e su ciascuno di questi cuce un ruolo da perfetto figlio di puttana, completamente scevro di quel minimo di umanità presente in più o meno tutti i protagonisti degli altri film - per quanto nascosta sotto svariati strati di cattiveria. Il risultato è che il regista ci porta ad odiare ogni singolo elemento del gruppo, tenendo fede - almeno in questo - alle aspettative create.
Chi ha visto Django, sicuramente ricorda quanto disprezzabili fossero il maggiordomo Stephen (Samuel L. Jackson) e il mandriano Billy Crash (Walton Goggins), tanto che l'intera vicenda narrata trovava il suo acme nella trucidazione di entrambi. Bene, in Hateful Eight, Tarantino ripropone versioni alternative degli stessi due orribili bastardi e ce li innalza a pseudo-eroi della vicenda, quasi si divertisse proprio a far incazzare il pubblico. Anche in questo il regista riesce magistralmente, ma temo che a divertirsi nel farlo sia solo lui.

Il film è caratterizzato da una commistione di generi diversi, in linea con i lavori precedenti, da cui si discosta sensibilmente però per i temi trattati. L'ambientazione western di Django qui è solo una facciata, mentre manca quasi del tutto l'azione e la carica vendicativa di Kill Bill. Questa pellicola invece strizza l'occhio più al dramma psicologico/black comedy in stile Carnage di Roman Polanski, con un'infarinatura di giallo alla Agatha Christie, in cui le misteriose vicissitudini dei personaggi generano un vortice di conflitti personali e ideologici che costituiscono il vero motore della vicenda. Argomenti come la guerra di secessione, la schiavitù, e i "fottuti messicani" fungono però solo da sfondo al continuo gioco di sguardi di Leoniana memoria. Degne di nota in questo senso sono le classiche occhiate truci di Samuel L. Jackson - cui manca solo di dare una ciucciata dal bicchierone di Sprite e dilettarsi in citazioni bibliche, per rivestire i panni di Jules Winnfield di Pulp Fiction. Michael Madsen invece - ahimè - è ben lontano dai fasti del balletto col rasoio de Le Iene e dalla cordiale cattiveria di Kill Bill, per quanto il regista si sforzi di regalargli gli stessi primi piani dei suoi occhi di ghiaccio perennemente accigliati.


In conclusione nel film ci sono tutte quelle piccole cose che hanno reso celebre il regista, anzi forse ce ne sono fin troppe: dialoghi taglienti e volgari, primissimi piani di brutti musi, cattiveria pura, sangue, linea narrativa incasinata, colonna sonora perfetta e citazionismo sfrenato. A tal riguardo è impossibile non notare i riferimenti ai film di John Carpenter, con Kurt Russell al centro dello schermo circondato dal ghiaccio come ne "la Cosa" e che addirittura viene definito "jena" (vedi Fuga da New York e/o da Los Angeles). Tuttavia questi elementi, compreso il cast di primissimo ordine, non bastano a salvare la pellicola, che da un lato è orfana di una trama degna di una sceneggiatura alla "Tarantino" e dall'altra vittima di uno stile eccessivamente rilassato, compiaciuto e autoreferenziale.

Voto: 5 - da non (ri)vedere.

PS: Quentin, aspettiamo a gloria il prossimo capolavoro; sperando che davvero tu ti decida a girare il volume 3 di Kill Bill (o quantomeno a far rilasciare il materiale inedito già girato tra i primi due capitoli) oppure il lungometraggio dedicato ai Vega Brothers (Vic e Vincent, già protagonisti rispettivamente de Le iene e Pulp Fiction) che hai annunciato a più riprese.

6 febbraio 2016

L'importante è andare avanti - Lettera aperta ad amici, compagni ed amanti

Non ci siamo sentiti per un po', è vero.
So che un semplice mi dispiace non ti basta, e che oltretutto suonerebbe ipocrita.
Ti devo delle spiegazioni, e sono qui per dartele - per quanto non sia sicuro che serva a migliorare la situazione.

Dall'ultima volta sono successe tante di quelle cose che non vale neanche la pena di stare qui a elencarle. E' sempre così con le cose: succedono - e in generale lo fanno troppo in fretta.

La vita da specializzando ha dei ritmi assurdi.
La rotazione trimestrale delle turnazioni genera una continua confusione nella tua giornata tipo, che oscilla tra la vacanza-studio pagata e lo sfruttamento di stampo negriero. Al trimestre di mezze giornate lavorative si succede un altro di segregazione in corsia, in cui parole come solitudine e stress assumono nuovi e terrificanti connotati. Nella monocromia della vita di reparto, la deprivazione sensoriale finisce col metterti in contatto col tuo animale guida interiore - anche solo per fare due chiacchiere con qualcuno che non sia in uniforme o in pigiama. Tanto per la cronaca, il mio è una volpe in doppio petto di velluto, nostalgica dei tempi passati a rubare galline di nome Mr Fox.


In questo costante ri-adattamento dei bioritmi impari a valorizzare veramente i momenti di tempo libero, per lo più seppellendoti nel letto alla ricerca del sonno perduto tra guardie di notte sfortunate e weekend di congressi. E così passano i giorni e i mesi, finché poi una mattina ti trovi in ambulatorio le nuove matricole senza che tu neppure ti sia accorto di non esserne più una.
Dove cazzo è finito il mio primo anno pisano?

La via dello specializzando è tutt'altro che rettilinea.
Assomiglia all'autostrada A 12, direzione Genova. La strada inizialmente fila dritta fin oltre la Versilia, scivolando sulla piana che scorre tra il litorale a occidente e le Alpi Apuane a oriente. Poi d'improvviso le montagne sembrano franarti addosso mentre la marea risale fino ad inondare la carreggiata, così che quando non sei costretto ad assecondare le asperità della costa ligure, finisci inghiottito da un tunnel.
Ogni volta che ne riemergi, la luce muta e con essa l'azzurro delle onde, ora blu cobalto e ora grigio plumbeo; il manto di ombra proiettato dall'arco di roccia bruna scompare dietro la curva e torna ad abbagliarti la distesa di abeti e faggi, baciati dai raggi di sole in un trionfo di verde.
La montagna però ha ancora fame e ti rivuole nella sua pancia nera e arancione per poi risputarti fuori, sotto il cielo, adesso ingolfato di nuvole fumose e gremite di pioggia. Mentre gli appennini continuano a masticarti, il tergicristalli scandisce come un metronomo lo scorrere dei chilometri che ti dividono da Genova. Una sottile patina di condensa si forma sopra il cruscotto, rendendo il golfo e le sue insenature un'unica macchia sfuocata di asfalto, su cui file e file di palazzi stanno ritte per magia come tasselli di domino.
Ormai il sole si spegne lontano, tuffandosi in una schiuma infiammata che separa il buio delle montagne dall'orizzonte. E' notte, e i lampioni sparsi sulla costa nera a malapena ne segnano il confine dalle acque altrettanto oscure.

Tu però sei sempre in macchina. Che ci sia il sole, la luna, la pioggia o la nebbia.
Prima almeno ci provavi a telefonare agli altri, quelli rimasti a casa e quelli scappati altrove. La linea però, cade ad ogni maledetta galleria, e ben presto il fastidio per le conversazioni interrotte supera il bisogno esplicito di risentire le voci amiche.
Le chat e i social forse aiutano a sentire meno le distanze, ma sicuramente non funzionano con le mancanze.
Le cose che passano dal finestrino non ti colpiscono davvero. Le cose passano davanti agli occhi senza avere il tempo di fissarsi sulla retina e inchiodarsi in quello strato molliccio di cervello dove sta la memoria. Passano i paesaggi, i volti, le strette di mano e gli abbracci.
Tu tanto se sei sempre in macchina. Che ci sia il sole, la luna, la pioggia o la nebbia.

Se ti dicessi che non ho più fatto salire nessuno a bordo, ti direi una cazzata. Tu mi conosci e sai bene come sono fatto. Anche i passeggeri come i panorami, passano e cambiano a cadenza trimestrale.

L'unica cosa che non cambia è l'ingenuità di essere lo stesso di quando ho girato le chiavi nel cruscotto poco più di un anno fa. Pur ammettendo che ciò sia possibile, se mi fermassi proprio in questo istante, mi troverei semplicemente solo e lontano. Lontano da te, dagli altri e da tutti quelli cui frega qualcosa di chi sono o di chi ero. Ma anche lontano da dove voglio arrivare...



Non volevo essere così pesante. Scusami. Oggi è una giornata piovosa, e la mia metereopatia non accenna a migliorare. A dire il vero, questo è un periodo fuori dal tunnel dell'ospedale e io sto sostanzialmente bene.
Questo ritmo frenetico ha il lato positivo di farti dimenticare tanto quei giorni indistinguibili gli uni dagli altri, quanto quelli in cui assisti alle tragedie vere.

L'importante è andare avanti.

Tu e gli altri siete rimasti indietro, ma almeno so dove guardare.
Se ti scrivo è per dirti che almeno tu non passi. Anche se forse a non passare, è solo la mia idea ingenua di te che avevo prima che girassi le chiavi nel cruscotto.