21 settembre 2013

The Royal Tenenbaums

ATTENZIONE SPOILER: la seguente recensione svela particolari della trama. 
Se siete interessati alla visione del film, fatelo prima di leggere.
Se non siete interessati, prima leggete e poi andate comunque a noleggiare il dvd.
Se avete già visto il film e vi ha fatto cagare, date libero sfogo alle offese.
Una perla. Wes Anderson crea fin dai primi 30 secondi una cornice perfetta, dipingendo una casa delle bambole dove si muovono personaggi magistralmente caratterizzati, al tempo di una colonna sonora cucita su misura per ogni inquadratura. In questa pellicola c'è tutto: affetto, odio, depressione, droga, funerali, cani, tute dell'Adidas e dolcezza - tanta dolcezza. Una commedia che fa ridere sottovoce, senza volgarità e senza disturbare il vicino...e non sono molti i film che possono vantare tanto.
E' la storia di una famiglia speciale, composta da dieci bizzarre creature e tenuta assieme da 22 anni di tradimenti, litigi, incomprensioni e fallimenti - nonché dall'amore di una mamma ingrigita.
Da una parte sta Royal Tenenbaum, un padre deplorevole nella sua infinita bastardaggine,che si strugge nel tentativo di riconquistare l'amore dei figli e della splendida moglie, anche se spinto più dal capriccio che da un reale sentimento: è un bugiardo patentato che ricorre ai più meschini dei trucchi per raggiungere i suoi scopi, finendo però con lo scoprire un amore sincero verso i suoi cari - seppur fallendo miseramente nella sua impresa. Dall'altra ci sono i giovani Tenenbaum, in cui genialità e stupidità s'intrecciano formando un arcobaleno di caratteri che abbraccia quasi tutte le persone del pianeta. Il maggiore è Chas, un vedovo nevrotico che non riesce a piangere la recente perdita, ridotto a sfogarsi nell'ossessivo affetto per i figli, sue fotocopie sputate - stile Mini Me - e nell'inspiegabile disprezzo per il proprio cane. Viene quindi il dolce Richie, tennista profondo e sensibile, appassionato pittore e ritrattista dal dubbio talento, che gira per il mondo cercando di guarire dalle pene di un amore poco ortodosso. Ed infine la figlia adottiva Margot: un mistero biondo e maledetto che nasconde una drammaturga libertina colpita dal blocco dello scrittore, nonché da un velo di depressione.
Adoro questo film, è inutile nasconderlo...nel rivederlo decine e decine di volte, prima di dormire, si scoprono quei particolari sottili che il regista ha nascosto con cura maniacale nei ritratti appesi al muro, nei trofei in camera di Richie, nei taxi inspiegabilmente malconci - gipsy cabs - o nelle pagine dei libri che annunciano i capitoli della storia.
Un cast d'eccezione impreziosisce il tutto: l'inossidabile Gene Hackman interpreta il pater familiae, sfoggiando una sorprendente interpretazione comica, che lo rende degno protagonista e fulcro di tutta la pellicola; viene poi la splendida Anjelica Huston, non a caso eletta a musa ispiratrice di Wes Anderson, che intrepeta Etheline Tenenbaum ossia la quintessenza della maternità e della femminilità; Gwyneth Paltrow, Ben Stiller e Luke Wilson, sono invece tre giovani rampolli di cui sopra; in particolare quest'ultimo - oltre ad essere co-autore della sceneggiatura - risulta assolutamente indimenticabile nella sua tenerezza; infine Owen Wilson e Bill Murray - altra costante delle commedie del regista americano - concludono il quadretto familiare con la loro stravanganza genuina.
Una scena su tante: l'incontro tra Richie e Margot alla stazione dell'autobus.
In buona sostanza, si tratta di uno dei miei film preferiti: il voto è chiaramente 10, anche se non credo di poter essere molto oggettivo.

16 settembre 2013

Firenze

Com'è dolce il vento che scivola sul ponte,
quando un paio di shorts solletica l'acume,
portando le note stonate, di risate bionde.
Selve di persiane si specchiano nel fiume,
chiudendo allo sguardo spiragli affrescati:
una bimba che colla luce accesa, dorme,
quasi della notte buia temesse gli agguati.

Squadroni scalcianti di silenziosi motorini
attendono il risveglio dei rispettivi fantini
mentre dame bianche ti salutano per la via
appese a una facciata nella loro cortesia.
Gattonando verso casa, non sei mai solo:
di un canto e un vicolo pestando il suolo,
discorsi sconnessi e rose senza profumo,
ronzano alla luce del bar, in mezzo al fumo.

Bicchieri di plastica, scherzi e minigonne,
sembrano petali dischiudersi alle tenebre
rivelando la freschezza del Giglio insonne.
Dimenticando il tempo, risplende celebre:
nell'austerità serena, ti abbraccia eterna,
cullato dalla cupola, che veglia materna.

Colla sigaretta in mano, invecchi tu solo,
perso a rimirar tanta bellezza col tuo volo.

13 settembre 2013

L'amour - pt. 6

(Continua da qui)
Alla fine di un'estate, Luca si trovò da solo col suo tempo per la prima volta negli ultimi anni. Ripassava nella mente le ragazze che lo avevano accompagnato nel suo lungo cammino universitario, immaginandone i volti. Non li contava più. Non perché fossero troppi, ma perché ormai conosceva bene la stupidità che si cela nel farlo. Li scorreva veloci, senza soffermarsi su alcuno: quasi non li distingueva. Molti avevano perso gli occhi, altri la bocca...qualcuno anche il nome. Nel rendersene conto si rattristò un po'.
Un equilibrio precario, mantenuto con grandi mazzate alla botte - di vino, birra e vodka - e con tremendi colpi al cerchio, fatto di infiniti pomeriggi piegato sui libri, lo aveva sostanzialmente tenuto in piedi nelle sue scarpe fino ad allora. Non era felice...tranquillo, forse addirittura sereno, ma non felice. Una volta l'aveva conosciuta, la felicità, forse anche due. Ma era sempre stata destinata a finire. Non esisteva il per sempre.
Ripensando con rammarico alle occasioni perdute, si crogiolava un po' nelle esperienze dei semestri trascorsi. Dalla prima meraviglia che aveva provato toccando il corpo morbido di Elena, aveva vissuto altre innumerevoli sorprese e avventure. Non aveva mai smesso di ricercare quel tremito leggero che si prova avvolti tra due gambe vellutate, con le unghie conficcate nella schiena. Un attimo. Il circuito del piacere si libera vibrante, rilasciando gocce di felicità da qualche parte dentro la testa, che rapide come un fulmine pervadono il ventre e tutto il corpo in un'abbraccio purificante. Nessun pensiero. Nessun rimorso.
"In amor vince chi fugge" - anche se forse amore poi non era: aveva imparato presto come avere quello che voleva dalle ragazze, e con un cuore infreddolito e non più disposto a lasciarsi ghermire, non faticava a dimostrare l'eterna verità del detto antico. Fare l'amore e fare all'amore, erano due sottili sfumature letterarie che nella sua testa occupavano stanze lontane: la gioia del sesso non riempiva il petto come il sentimento che un tempo lo attanagliava, né poteva sostituirsi ad esso. Era come paragonare una stella cadente all'estate - un fulmineo desiderio al costante calore del sole. Eppure da che l'estate era finita, non faceva altro che girare nelle notti col naso all'insù, scrutando il cielo attraverso il fondo di un bicchiere che si vuotava. Aveva freddo.

Seduto sullo stesso divano, dischiudeva di nuovo gli occhi dal sogno di quel bacio, ormai invecchiato ma non meno splendente. Pochi giorni dopo avrebbe finalmente provato il segreto sapore di lei. Ricordava come la sicurezza di quel giorno fatidico si squagliò in una notte, la cui fiamma bruciava ancora, nonostante le cicatrici fossero adesso raggrinzite e pallide. L'aveva trascinata nel suo letto d'infanzia, stringendone la mano come quando giocavano da bambini. Riviveva la paura, che come un fantasma, era tornata ad infestare le sue spalle goffamente impegnate a stringere quel corpicino delicato. Sentiva ancora la pressione salire tra le tempie, sotto il peso di pensieri sciocchi: per lo più paragoni con amanti migliori che lo fecero sentire piccolo piccolo. Non era pronto. All'epoca non sapeva quante volte avrebbe voluto rivivere quella notte con lei, ricco delle esperienze che sarebbero venute poi. Adesso rivedeva con nostalgica timidezza quel Luca ragazzo, che arrossiva e tremava mentre cercava di essere un uomo. Anche lei non era pronta. Quei ciuffi dorati che suggerivano l'amore tenero delle favole, giacevano immobili sul materasso colorato. Nelle labbra rosa dove aveva sempre sognato un tiepido paradiso, non aveva trovato nessun agognato conforto. Quando lei scoprì il seno e si sfilò il lungo vestitino chiaro, la sua figura algida lo paralizzò per tanta fragilità e insicurezza. Mossi dall'impeto del più strano periodo delle loro giovani esistenze, si erano trovati nudi l'uno di fronte all'altra, senza sapere bene il perché. Rivedeva tra le efelidi castane quel sorriso triste, che interrogativo cercava il bacio di lui. Non aveva mai provato emozioni così pure e contrastanti, e forse ne sarebbe stato impossibile il ripetersi. Non bastò il corpo di seta che lo sfiorava a smuoverlo da quel blocco. Le sue braccia si muovevano spente mentre le afferrava i fianchi e il seno. Con la testa rapita nel suo mondo di paura, Luca non aveva vissuto quel momento. L'aveva baciata meccanicamente e, ancora tremante, aveva congiunto il suo corpo a quello di lei che lo fissava turbata. Le leggeva crescere negli occhi i dubbi che lui stesso aveva. Rivedendo nella memoria i due corpi che si avvitavano insicuri, Luca adesso gridava di fermarsi, di non rovinare tutto, di non gettare al vento un tesoro cui aveva dato mille nomi, senza ancora trovarne uno giusto.

Ricordava il verde di lei che lo trafiggeva mentre dava fiato alle sue paure. Che hai? Non rispose. Che c'è? tacque ancora. Non ti piaccio? Non riuscì a parlare. Nuove frasi gli si strozzarono in gola, come un tempo, soffocandolo. Ho paura. Non volevo che succedesse così. Mi piaci così tanto da terrorizzarmi. Temo di non essere all'altezza di te, di Andrea. Con Elena è diverso. Con lei sono a mio agio. Vorrei che tu mi stringessi e mi dicessi che va tutto bene. Vorrei che tu sorridessi mentre facciamo l'amore...
La vide alzarsi da quel letto, cercando le sue cose, mentre continuava a chiedergli quale fosse il problema. Il volto sconvolto da una rabbia disperata e gli occhi di nuovo arrossati. Lui l'aveva accarezzata in silenzio, schiacciato dalla vergogna. Si era sentito un poppante.

Da allora erano usciti assieme altre volte. Ma non era mai più riuscito a parlarle: tutte le volte che l'aveva incontrata, per magia era tornato nudo su quel letto, a tremare per il freddo. Vergogna. Tanto grande da rendergli invisibile il frammento di felicità che, in un giorno di pioggia, aveva intravisto in mezzo alle nuvole. Per qualche mese il telefono aveva continuato a squillare, ma poi finì col non voler più rispondere. Aveva davvero rovinato tutto.
Poggiata sul cuscino accanto a lui, stava la lettera che le aveva scritto qualche tempo dopo: nel rileggere oggi quell'accozzaglia di pensieri sconnessi, di assunzioni di colpe epiche, di confessioni inverosimili e di prostrazione ingiustificata, capiva perché non avesse meritato una risposta.

Il suo sentimento, un tempo puro, aveva mutato i caratteri fino a divenire un'ossessione. Con gli anni si era chiesto se quel suo amore di ragazzo fosse degno di questo nome, ma non aveva mai trovato risposta. Infine si era chiesto come avesse potuto ritrovare la tranquillità, ritornando fra le braccia di Elena, anche se per pochi mesi soltanto. Dopo di lei erano venute tutte le altre.
Aveva reciso il legame con la sua Beatrice, o peggio, lo aveva lasciato sciogliere. Adesso si scopriva a contare i mille nomignoli che le aveva dato. Bea, Bionda, Rubia, Mostriciattolo, Scheggia...Spilla. Quest'ultimo era sempre stato il suo preferito, sapeva di acqua pulita ed allegria; non ricordava più perché aveva smesso di chiamarla così, arrivati al liceo.

Ancora seduto sul velluto azzurro, si accese un'altra sigaretta. Il grande televisore spento rifletteva la sua immagine nello specchio nero. Accanto al cimino rosso che si accendeva ad ogni boccata, non vedeva più nei propri occhi la freschezza di un tempo. Fini solchi cominciavano a piegare la carne attorno agli occhi, che si accartocciava tutta quando rideva. La barba incolta e le guance scavate non raccontavano più le mattine a rincorrere le rane o i pomeriggi distesi a capo all'insù, a dare forma alle nuvole. Ormai sapeva che chiodo schiaccia chiodo...ma anche che ci sono punte arrugginite e tanto grosse da non poter essere cavate.

Prese il telefono. Non sapendo neppure se era ancora lo stesso, compose il numero a memoria.
"Ciao Lu..." Rispose una voce allegra "...era tanto che aspettavo questa chiamata."
"Ciao Spilla..."

10 settembre 2013

Non è un paese per vecchi

ATTENZIONE SPOILER: la seguente recensione svela particolari della trama. 
Se siete interessati alla visione del film, fatelo prima di leggere. 
Se non siete interessati, prima leggete e poi andate comunque a noleggiare il dvd.
Se avete già visto il film e vi ha fatto cagare, date libero sfogo alle offese.
Si tratta di uno dei film più discussi degli ultimi anni. Per alcuni un capolavoro, per altri una cagata pazzesca - o peggio: la quint'essenza della noia. Panorami spettrali e silenzi dilaganti fanno da protagonisti in una delle pochissime pellicole volutamente senza colonna sonora. Tre personaggi si districano tra i nodi di una trama inconsistente, in un inseguimento infinito e inevitabile. Un triangolo bizzarro che collega un veterano del vietnam a l'hitman più spietato della storia del cinema e ad un poliziotto ingrigito. Tommy Lee Jones è il vecchio del titolo, uno sceriffo che sente il peso dei suoi troppi inverni in sella al cavallo. Egli non concepisce la violenza del traffico di droga che devasta il Texas degli anni '70, tanto meno la follia omicida dei primi serial killer. A mio parere è il personaggio meno riuscito, colla sua nostalgica passione che, sostanzialmente, aggiunge molto poco al nucleo del film - costituito da un duello di sguardi e stratagemmi. Filtra la realtà col suo incredulo disprezzo, che si aggiunge sicuramente a quello della platea che non ne capisce le farneticazioni.
Nell'estenuante attesa che precede lo scontro tra Llewelyn e l'inarrestabile Chigurh, ci viene presentato un sottile gioco mentale che, in definitiva, non porta a niente. Se volete, è un po' il film delle aspettative tradite; eppure è sorprendente nei suoi colpi di scena che smuovono una vicenda apparentemente lineare.
L'uniformità della storia è strettamente legata al personaggio di Javier Bardem: qualsiasi proiettile lo ferisca, o qualsiasi cosa esploda, sai sempre e comunque che lui arriverà dove deve, con in mano il suo fucile silenziato. L'attore spagnolo sfoggia una delle più grandi interpretazioni di un cattivo, valsagli un oscar sacrosanto. Tanto più se si prendono in considerazione i ruoli sdolcinati o strappa lacrime cui ci aveva abituato con Il Mare Dentro o L'Amore Ai Tempi Del Colera, e proseguiti con Vicky Cristina Barcelona. Il suo killer non ha niente di umano nello sguardo vacuo, nell'andatura ferma e leggera, nella ferocia fredda e priva di passione. E' uno squalo che insegue una sottile scia di sangue, lasciandosi dietro un mare impregnato di rosso. Il taglio di capelli da angelo, la tenuta di jeans da coglione americano, l'immancabile bombola di ossigeno - normalmente utilizzata per abbattere le vacche: ecco cosa riflettono i suoi occhi neri senza fondo, quando ti fissano: bestiame, carne da macello o poco più. Disumana è l'attenzione che mette nel non sporcarsi i piedi e la sua serenità nel far roteare in aria una moneta. "Scegli" "No. Io non voglio scegliere." "Scegli" "Non è la moneta che decide; a decidere sei tu" "Io e la moneta siamo arrivati allo stesso punto". Sovrumana è la sua ineluttabile presenza: sembra il cupo mietitore che con la falce in mano raccoglie, sempre, i mesti frutti del suo operato.
Ha delle regole. Una disciplina folle che si giustifica da sola, nella costante vittoria sui suoi avversari.

Il tratto più enigmatico del film è probabilmente il finale. Cercando su internet ho trovato più richieste di una spiegazione al riguardo...senza peraltro trovarne una convincente: apparentemente fedele alle sue regole, Chigurh si reca nella casa della vedova Moss, per mantenere fede alla tremenda promessa fatta al defunto marito. I Coen ci lasciano intuire l'accaduto dal modo con cui il killer si studia gli stivali sulla soglia di casa...eppure non sappiamo quale sia stato il risultato del lancio della monetina. Che l'infallibile Chigurh, preso in contropiede dalla reazione di lei, abbia sparato senza averla lasciata decidere? Questo forse spiegherebbe il tremendo incidente che colpisce il maniaco: un destino angustiato per questa sua mancanza - o altrimenti del tutto inspiegabile - lo ha ripagato facendo bucare un rosso ad un autista qualsiasi, fracassandogli un braccio.
La pellicola si chiude con i due sogni dello sceriffo ormai in pensione che, se messi assieme al discorso di apertura, dovrebbero giustificare il titolo del film (e del romanzo da cui è tratto). Nel primo, suo padre - anch'egli sceriffo - gli aveva prestato dei soldi che lui ha perso. Nel secondo il genitore lo precede a cavallo con una torcia in mano. Credo che l'unica interpretazione possibile sia proprio quella della mitizzazione dei bei tempi andati , che egli personifica nel padre - più volte citato durante la pellicola. Il primo è la sensazione di fallimento che prova guardando ai suoi giorni. Il secondo è la soddisfazione di aver comunque tentato di seguire le orme del padre nella sua carriera.

Voto: 8. Una trama singolare, un finale agghiacciante e il killer più figo di sempre...tre motivi più che sufficienti per guardarlo.

8 settembre 2013

L'amour - pt. 5

(continua da qui)
Erano seduti sul grande divano di velluto scuro, nel silenzio interrotto solo dal ticchettio della pioggia contro la finestra a lucernario, che proiettava un'aura grigia su tutto il soggiorno. Luca faceva fatica a tenere assieme la nuvola di pensieri che gli ingolfavano la mente. Eppure era contento. Nel riscoprire un sogno mai dimenticato, improvvisamente materializzatosi, era pervaso da un'allegria infantile. Non bastava la pioggia, il rimorso o il dispiacere a guastare il suo desiderio purissimo: si trovava dove voleva, con chi voleva. Tra quei due braccioli azzurri non c’era posto per i rasta di Andrea e per i fantasmi di un tempo; in quel pomeriggio di nubi, neppure il sorriso di Elena riusciva a filtrare. Si sentiva forte.

Beatrice sprofondava in quegli occhi chiari, faticando a scorgervi una luce familiare. Dejà vu. Nel giro di poche settimane era cambiato tutto. Andrea aveva continuato a vedersi con la sua ex per mesi, anche se non ne aveva le prove, lo indovinava con ogni sguardo. Aveva passato giorni struggendosi nell’impossibile ricerca di un modo che le riportasse, per magia, la felicità tra quelle braccia tatuate…finché, d’improvviso, venne schiacciata sotto un dilemma martellante. Come si era potuto permettere quell’idiota di tradirla? Cinque lettere che adesso risplendevano infuocate nel grigio dei suoi pensieri. Non lo riconosceva più. Cinque lettere che vedeva brillare sulla fronte in mezzo ai rasta. Idiota. E ancora stronzo, tronfio, noioso. In breve, ad avere la meglio sulla tristezza e sulla gelosia, fu il più nero disprezzo. Il suo abbraccio non trasmetteva più calore, né sapeva di avventura o profumava di cuscino sprimacciato: cretino, idiota. Aveva distrutto tutto. Nascosta dietro una tempia, un’altra vocina aveva cominciato a sussurrare. Da quanto tempo non si sentiva più viva? Erano passati mesi dall’ultima volta che aveva provato il solletico liberatorio di una risata sincera. Era successo una sera in piazza con Luca e i suoi compagni dell’università...Se chiudeva gli occhi, sentiva ancora gli scherzi dei ragazzi e gli sguardi sul suo vestito, avvertiva ancora la voglia vibrante di scoprire persone e situazioni nuove. In un momento, la visione del suo angelo seduto sui gradini, tutto allegramente perso nelle chiacchiere con Elena, la riportò nella stanza.

La odiava sotto la pelle. La cosa che più le bruciava era stata scoprirsi a immaginarlo tra le sue grinfie. Luca risplendeva di una luce nuova da allora. Era contento, lo vedeva; e sapeva che, per questo, sarebbe dovuta esserlo a sua volta. Invece aveva trovato fin da subito quel bagliore insopportabile, allergico. Aveva visto il suo angelo spiccare il volo…ed aveva finito col sentirsi sola. Erano cresciuti recitando due ruoli definiti, identici per anni; non riusciva ad accettare questa svolta, non ancora. Le mancava. Le mancava da morire. Cercava lo sguardo tenero, il silenzio eloquente e quella sensazione tutta speciale di poter dischiudere ogni sua barriera segreta, sapendo di ricevere nient’altro che sorrisi e comprensione…ma non li trovava più. Disteso lì accanto mostrava lo stesso mento volitivo di sempre, così come la fronte spaziosa e le orecchie grandi – che mille volte aveva tirato e bonariamente schernito; eppure quel volto era mutato, come se sotto la pelle glabra vi fosse uno spirito sconosciuto ad animarne la superficie. 

Ripercorrendo il giro di pensieri che già aveva solcato mille volte, Luca si accostò a Beatrice fissandola dritta negli occhi. Assaporava le parole che per anni aveva tenuto nascoste sotto il cuscino, per lasciarle uscire ogni tanto nella notte, a colorarla di verde smeraldo. “Tu non sai quante volte sono rimasto sveglio perché il cuore picchiava troppo forte sul materasso. Sono cresciuto aggrappato ad una speranza piccola: una candela che tu hai alimentato muovendo un dito o con un sorriso. Allo stesso modo, i tuoi racconti vividi dei pomeriggi di baci erano come benzina. Ma anche se coperta dalla cenere, la scintilla non ha mai smesso di brillare." sprofondò la mano nell'oro che le scendeva dietro al collo: "Finché poi arrivò Andrea…Andrea proprio non lo sopportavo. Non sapeva niente di te dall'alto della sua criniera sporca, fatta di esami bocciati e canne. Eppure tu eri felice. La tua voce incantata, che mi raccontava le avventure di quel coglione al telefono mi ha ucciso cento volte, per poi riportarmi in vita il giorno dopo con un Buongiorno Lu. Tu eri contenta ed ho finito col credere che andasse bene così...che fosse giusto così. Tu eri felice, cosa potevo chiedere di più? Non potevo…” Sapeva che il suo slancio avrebbe causato una reazione, seppur ignorandone la natura. Voleva finalmente cacciare tutto quel grigio che si era ammucchiato là dentro: il timore di un rifiuto non bastava ad arginarlo. Segretamente sperava in un trionfo di gioia…non si aspettava di vedere scendere due lacrime. “…perché ero prigioniero dei miei sentimenti, mi sono sentito uno schiavo in questo rapporto; ma ero uno schiavo contento, anche se sembra impossibile, perché se tu stavi bene, mi bastava poterti stare vicino. Non piangere, io…io ti a…” Una mano fredda e bagnata gli si piantò sulle labbra, soffocando ancora una volta quelle due fatidiche parole. “Non lo dire. Luca stai zitto.” Gli si gettò al collo, coprendolo di lacrime, sprofondando con la testa nel petto. Quella testolina bionda e singhiozzante smorzò in un attimo ogni sua velleità.

Trascorse un’ora prima che il silenzio venisse ancora interrotto. Le aveva sfiorato teneramente i capelli finché il tremolio non era cessato per lasciare posto a sospiri via via più lenti e rilassati. Senza sollevare la testa dalla comoda carezza, Beatrice riprese a parlare. “Scusa se ti ho fermato, prima.” La voce non tradiva alcuna insicurezza. “Ma devi rispondere ad una domanda. Come puoi parlare di questi sentimenti mentre ti vedi con un’altra? Non credo tu abbia pensato a questo. Non è una questione di correttezza verso di lei…sai che non mi piace. E’ una questione che riguarda te, Lu. Non dire una cosa così grande se non sei in grado di sostenerla con le tue azioni.”
Capiva quello che diceva. Già altre volte quel dubbio gli aveva solleticato la mente; tuttavia non era più disposto a tacere. Non poteva continuare ad esserle amico - e basta. Le parole scivolarono via naturali come acqua da una fonte: “Io sono innamorato di te da così tanto tempo che quasi non me lo ricordo. Prima ti amavo da ragazzo, mi sentivo schiacciato da un'emozione così grande. El…” aveva tentennato prima di dire il nome di Elena, non poteva rischiare di rovinare tutto “...lei è stata una parentesi dolce. Mi ha svelato un nuovo mondo e le sarò sempre grato per questo. Sono cresciuto. Però non ho dubbi su chi io desideri per me, non ne ho mai avuti.” Mentre le diceva, si accorse dell’insicurezza di queste ultime parole. “Io voglio te. Da sempre.” Fece per abbracciarla, afferrandole la spalla poggiata sul suo petto e ruotandole il capo per cercarne lo sguardo. "Ti amo". Immerso ancora in quel verde infinito, si sentiva sempre meno sicuro. Sperava che lei facesse qualcosa - qualsiasi cosa.
Si studiavano in silenzio, divisi da meno di trenta centimetri. “Sei uno stupido Lu. Hai rovinato tutto anche tu” in mezzo alle lentiggini balenò un sorriso equivoco. “Ma forse la stupida sono io…Non mi sono mai resa conto – o non ho mai voluto farlo – di quello che provavi per me.” Passò una mano dietro l’orecchio di Luca “Mi piace tanto il tuo nuovo sguardo”.


Era il segnale che aspettava. In un momento ogni dubbio si dissolse in un bacio che valeva venti anni di vita. Le dita intrecciate sul velluto. I respiri affannosi che si perdono in un unico fruscio. Le punte dei nasi che si sfiorano danzando da un lato all’altro. La bocca morbida e rovente che stringe il labbro inferiore in una morsa delicata per scendere sul mento e il collo. Scosse elettriche che dalla base risalgono e sottili s'insinuano dietro le orecchie, sotto i capelli. Quando Luca riaprì gli occhi, rimase accecato per un momento nella luce bianca che pioveva dal soffitto. Piano piano riprese forma quel volto fiorito: se era un sogno, non voleva svegliarsi.

Fine quinta parte

5 settembre 2013

Dio è morto.

Dio è morto: non dico niente di nuovo; è sotto gli occhi di tutti, anche se molti non riescono a vederlo. Non era così evidente quando Nietzsche lo profetizzava, infatti lui era un figo.
C'era un mondo in cui ogni uomo sapeva che non si poteva sapere tutto. La Bibbia spiegava abbastanza - o quantomeno ci provava - da poter vivere sereni; a tutto il resto ci pensava il timore di Dio. Il gregge del Signore cresceva e si moltiplicava in un recinto che dava un senso alle misure. A quel tempo grande o piccolo, bello o brutto, giusto o sbagliato, avevano caratteri precisi. Mi spiego meglio: mentre la morale cristiana - tuttora valida seppur immancabilmente inattesa - continua a definire per i credenti cosa sia il bene o il male, un tempo la fede includeva anche un concetto predefinito di grande o di piccolo, e anche di bello o di brutto, così come di vecchio o di nuovo e via dicendo. Quando la maggior parte delle persone crede qualcosa o vive come se lo facesse - che anche se non sono la stessa cosa, il risultato non cambia - le loro idee di giusto, di grosso e di rotondo, di malato e di verde, diventano concreti paragoni contro cui tutto si confronta. Con un punto di riferimento immobile e indiscutibile - in questo caso Dio - era facile dare i nomi alle cose...e ancora di più definirne le qualità. Non so dire quand'è che Esso sia venuto meno, e sinceramente il mio scopo non è scoprirlo. Fatto sta, che quando i pazzi sono diventati più numerosi dei sani,  le camice di forza hanno cambiato braccia. E' una mera questione statistica: è la vittoria del relativismo, un relativismo molto umano. Esempi: l'arca di Noè doveva essere sicuramente molto grande, per non parlare del monte del Purgatorio o dei sette cieli...però, diciamocelo, non costituiscono esattamente l'attuale esempio della possenza o della magnitudine. Allo stesso modo il diavolo o la morte devono essere molto brutti, tant'è vero che nessuno se li tatuerebbe sulle braccia o le utilizzerebbe per grafiche stampate su zaini o t-shirt (per non parlare di alcuni pazzeschi protagonisti di romanzi o film). Era un universo finito, ordinato e accessibile, attraverso la fede. C'era sempre un massimo, un migliore, un perfetto...Dio. Il mondo si è retto su queste misure certe per millenni.  Senza scadere nel banale, riflettiamo un momento su Adamo ed Eva e sul diabolico serpente. Alla luce dei ritrovamenti di Lucy (il cui nome deriva da una canzone dei Beatles, per chi non lo sapesse...e pensare che molti si arrabbiarono quando Lennon ammise che erano più famosi di Gesù!) e tutti gli altri australopitechi, credo si possa candidamente affermare che la Genesi sia una risposta sbagliata alla domanda "Da dov'è che veniamo?". Prima però non era lecito, né accettabile il porsi il quesito - e probabilmente vivevano tutti più tranquilli. Il fatto che la storia dei primi due amanti possa ancora fornire un insegnamento etico, non è argomento di discussione.

Dio è morto, e con lui tutti le altre divinità, gli ideali morali e spirituali; hanno lasciato un buco che  - seppur non sia stato riempito nel modo con cui Nietzsche auspicava - ha permesso il libero sfogo di noi esseri umani e finiti.

Ognuno di noi ha oggi la responsabilità di capire cosa sia grande o piccolo per sé stesso; tanto più quella di scoprire quale sia la propria idea di bello. Notare che responsabilità non implica che se qualcuno disattende tale richiesta, finisce dritto all'inferno. Anche l'inferno direi che è sostanzialmente morto. Credo che la responsabilità stia nel dover realizzare quello che il tuo cervello, influenzato dall'ambiente e dalla tua naturale inclinazione, ritiene essere giusto o sbagliato. Si tratta di un dovere che abbiamo verso noi stessi e la nostra natura, qualunque essa sia, pena l'infelicità - o peggio, l'indifferenza. In questo senso la morale cattolica, o buddista, o di qualsiasi altra ispirazione, non perdono di valore in senso stretto, semmai di universalità e di assolutezza in quanto non più riferibili a tutti noi. Il Vangelo resta un bellissimo esempio di virtù morale. Se tutti quanti ne seguissimo l'esempio, il mondo sarebbe un posto migliore; è ovvio anche per me che non faccio fatica a professarmi ateo. Questo infatti prescinde dal ritenere che effettivamente quel ragazzo morto sulla croce sia resuscitato o meno. Ama il prossimo tuo come Io ti ho amato - e cioè al punto di farMi ammazzare per te -, direi che non fa ancora una grinza come ragionamento.

Arriviamo adesso al punto centrale di tutto questo panegirico: chi ha riempito il buco di divina fattura? Molto semplice, la gente. Se ci fermiamo un secondo a pensare allo scopo di Facebook, delle trenta t-shirt, delle venti paia di scarpe, del diploma, del dvd del Titanic o di Pulp Fiction, dell'album degli Ac-Dc o di Britney Spears, di aver studiato 30 anni o lavorato altrettanti, di aver bevuto ettolitri di Coca-Cola o di Birra, della dieta o della palestra, del televisore da 50 pollici e della Mini Cooper...di quante possiamo giustificarne l'esistenza con un "perchè è necessario al mio modo di essere". Sembra una banalità, ma non lo è assolutamente: col mondo ci si confronta. Il non me ne frega niente di quello che gli altri pensano di me non esiste, è una cazzata. Tu sei e sarai sempre te stesso in funzione degli altri. Nell'incontro e nello scontro. Nessun uomo è un'isola. Tu non sei così perché ti ci hanno fatto, tu sei quello che fai, il modo in cui ti muovi e decidi. E questo si embrica in un gioco immenso di modelli e contatti virtuali, reali o televisivi che ti lega a tutto il resto del pianeta. Alla luce di questo appare molto difficile trovare valide scuse al fatto che sembriamo essere tutti uguali
Chi è la gente quindi? L'ambiente e la società con i suoi costumi e pregiudizi, suona un po' semplicistica come risposta. La gente è anche e soprattutto il sottile meccanismo con cui le mode e le idee si inculcano nella nostra mente...e quest'ultimo ha un nome preciso: marketing. Dio è morto, e al suo posto abbiamo eletto il consumismo più sfrenato. Un consumismo tanto materiale quanto intellettuale e spirituale. Non c'è un giudizio morale in questa mia affermazione.
Come in ogni epoca, ci sono persone capaci di sottrarsi a questo giochino diabolico, la cui personalità si esprime violentemente imponendosi sul resto della popolazione. Direi che mai come oggi ci è data quest'occasione di realizzazione come individui! Se non altro perché non rischi di finire arso vivo nel tentare...anzi, piuttosto ti staccano un assegno da qualche milione di dollari, se ci riesci. Certo, questa forma di vittoria è ben lontana dal superuomo - o Oltreuomo - tuttavia si sovrappone ad esso nella misura in cui quest'ultimo riesce a far coincidere la volontà del destino - o in questo caso della gente - con la propria.
Dobbiamo aspirare a questo? Beh se il discorso si limitasse all'imposizione sugli altri del proprio gusto musicale o nel vestirsi, probabilmente la risposta sarebbe no. Se però stessimo parlando di insegnare al mondo la propria idea di bello, o di grande, o di giusto direi che cominciamo ad avvicinarci all'obbiettivo. Galileo, Einstein, Picasso, Dalì, Gandhi e mille altri (anche se mille sono tristemente pochi) si sono avvicinati a questo. Gesù c'è indubbiamente riuscito, anche se magari la Chiesa non ha esattamente fatto propri tutti i suoi insegnamenti. In questa chiave, penso che anche figure come Hitler o Stalin abbiano raggiunto questo traguardo, seppur in un modo del tutto deplorevole e con i mezzi più abominevoli. Un ultimo esempio banale e molto limitato nel tempo ci è fornito da Steve Jobs: con le sue idee rivoluzionarie in fatto di estetica e di prestazioni, ha imposto uno standard, più o meno universalmente riconosciuto, nell'ambito dell'informatica e della telecomunicazione. Il suo iphone, a 5 anni dal suo lancio, è ancora l'incarnazione del concetto di telefono. (Un po' come Giuda col suo tradimento è stato la quinta essenza della bastardaggine per un paio di millenni...ma erano altri tempi.)

Arriviamo ora alla conclusione. Cosa implica l'assenza di un Dio - buono o cattivo che sia - che ci guidi e ci insegni dove sta il sopra e il sotto? La libertà. Anche in questa affermazione non c'è alcun giudizio etico. Un tempo si nasceva, si studiava o si lavorava, ci si sposava, si faceva dei figli, gli si costruiva una casa, si insegnava loro un mestiere e quindi si moriva nella speranza di una vita nell'Aldilà. Che si vivesse o meno secondo i dettami della religione era una scelta individuale, ma inevitabile: o si campava nel terrore dell'inferno, rigando dritto fino alla tomba, oppure si peccava bestemmiando e divertendosi. Questi sono due estremi ovviamente, ma il punto è che in entrambi i casi ci si scontrava necessariamente con un sistema definito e ordinato di regole e di precetti: l'idea di bene di stampo religioso o filosofico. O si aveva fede nel Signore e se ne seguiva il modello, o no, e se ne pagava - o godeva - le conseguenze. In un mondo ordinato secondo Dio, ossia un principio universale e perfetto, non c'erano alternative.

Oggi quasi nessuno, almeno della mia generazione, conosce più certi problemi. Magari non bestemmiamo (anche se solo per pura superstizione), così come non pecchiamo nel senso biblico del termine...eppure chi può affermare davvero che la nostra vita si esaurisca nella propria dedizione al Signore in vista di un bene superiore? Ci sono altri modelli da seguire, accettati dalla società, imposti dalla gente. Alzi la mano chi ritiene che non fornicare prima del matrimonio costituisca una buona regola di vita! V'immaginate sposarsi e poi trovarsi male a letto colla propria moglie? Assomiglia più o meno alla ricetta dell'infelicità. Il mondo dove siamo cresciuti noi non ha un recinto definito, né tanto meno un occhio che ci guarda dall'alto minaccioso. Noi non viviamo nel terrore di Dio, né sulla scia della sua promessa di una vita eterna per cui sacrificare la nostra. Certo, c'è a chi piace pensare di essere buono abbastanza per il Paradiso, e magari anche chi lo è davvero...ma ormai la loro fede ha perso quella forza di legge divina che prima sottometteva tutti quanti. Questi ultimi cristiani comunque, con una buona approssimazione, sono persone buone. E non è cosa da poco.

La libertà, intesa come l'assenza di un termine di paragone assoluto, ha un prezzo molto caro. Trovare la propria strada è diventato difficile. Messi davanti alla possibilità di scegliere qualsivoglia carriera, o donna, o canzone preferita etc. andiamo tutti più o meno in crisi. Ed ecco che scegliamo l'università basandoci più sull'idea del guadagno o del prestigio presso la gente, che sull'attenta scoperta delle nostre inclinazioni: quest'anno saranno oltre 2500 i ragazzi che affolleranno i banchi del test di medicina a Firenze, e credo sia lecito il domandarsi quanti abbiamo ricevuto il fuoco sacro di Ippocrate - e il perché il loro numero aumenti di anno in anno. Allo stesso modo il divorzio è diventata ormai una fisiologica fine di un amore. Per lo stesso motivo, belle bionde americane, che non sanno scrivere tre versi in rima, vendono milioni di copie di dischi - anche in paesi in cui nessuno capisce il testo. Mancando un idea assoluta di buono o di bello, ci si appella a qiella più condivisa - che spesso non coincide con la più condivisibile. Affidarsi alla gente è la soluzione più facile. Adesso abbiamo il Dio gente, che ovviamente di divino non ha proprio nulla. 

Ci sono però creature troppo fragili per poter sopportare questo mondo troppo grande da capire, e privo di una mappa. Anche loro tristemente crescono nel numero di anno in anno: sono quelli che chiamiamo pazzi, sciagurati, drogati, barboni, ritardati etc. Persone che non riescono a decidere per sé stessi, né a vivere secondo i costumi di una società a tratti obbiettivamente irrazionale. La dolce parabola dell'essere fighi ad ogni costo, ricchi e famosi...riscalda i cuori dei più ma chiude per sempre quelli degli altri. Non è un caso che i farmaci di gran lunga più prescritti al mondo siano ansiolitici e antidepressivi. Un tempo era la peste nera a mietere il gregge del Signore, oggi ci pensa la depressione. Ovviamente non tutte, ma buona parte di queste creature un tempo sarebbe riuscita ad avere una vita dignitosa, nel senso cattolico del termine. Il lavoro te lo trovava il babbo, la moglie te la raccomandava il prete, i figli più o meno li facevano tutti, anche perché c'era bisogno di braccia per lavorare. Sì, qui c'è un giudizio morale: la morte di Dio ha creato una selezione innaturale dei più fragili, che non sopporto. Nonostante m'ingozzi quotidianamente a questo buffet apparecchiato che è il mondo e sia quindi il meno indicato per dire certe cose, ho conosciuto sulla pelle della mia famiglia la sofferenza che crea il non riuscire a coincidere con i dettami del Dio gente. Creature interrotte, sospese in un limbo di pensieri e di sogni, sempre più impolverati col passare degli anni, costrette a ritagliarsi fette di pianeta sempre più piccole per poter stare bene. Mi rendo conto di partecipare io stesso a questo malefico gioco delle parti, essendo anch'io un pezzettino della gente. E sinceramente odio tutto questo. Non ha comunque senso il soffrirne. Semmai davvero dovrei impegnarmi per trovare il modo di cambiarla.

Siamo liberi di scegliere quello che vogliamo, e finiamo quasi sempre per farci del male o per fare come gli altri, a volte entrambe le cose. Eppure questa è la nostra occasione. Probabilmente l'ultima. 

4 settembre 2013

L'amour - pt. 4

Erano passate settimane dall'ultima telefonata con Beatrice. In diciannove anni non era mai successo che i due ragazzi si ignorassero per così tanto tempo.

Giorni prima, lavati via i segni della matita nera di Zorro, ma con i baci di Elena ancora indelebili sulla pelle, Luca era andato a casa della vicina: si presentò sulla soglia ancora stordito dalla notte alcolica e di scoperte, con il petto traboccante di un intruglio fatto di emozione e di vergogna e gli occhi infossati sotto il peso del sonno perduto.
Non ci vollero più di tre secondi alla biondina per intuire tutta la trama della notte innanzi. Con i piedi sull'ingresso e una mano appoggiata sulla maniglia, Beatrice lo squadrò da capo a piedi: "Ciao Lu, non ti trovo in grande forma se devo essere sincera...ma che hai combinato ieri sera?"
Luca distese le braccia lunghe in un movimento ampio e circolare, finendo col grattarsi la nuca mentre ammiccava un tiepido sorrisetto "Ciao Bionda. Sono stato alla festa di carnevale al Rizzoli con Davide e Michael, abbiamo raccattato una mina immensa...Ci saranno stati almeno diecimila ragazzi mascherati! C'era della gente assurda: ho visto un genio in tutina nera e con la faccia in mezzo a un cartellone enorme travestito da tessera della mensa, poi due tizi vestiti da sceicchi che compravano quelli vestiti da calciatori...allucinante! Ci siamo divertiti come dei cretini"
I lineamenti puliti si sollevarono in una smorfia divertita e sospettosa che Luca conosceva fin troppo bene, col dito puntato alla clavicola di lui mentre lo fissava con un occhiolino verde penetrante, ricominciò: "Mmm...E di ragazze invece quante ce n'era? Quante erano le indianine e le diavolette? Lu, lo sai che certe cose te le leggo negli occhi...vuota il sacco ragazzaccio"
Da che aveva lasciato la casa in centro, il suo cervello stremato e soddisfatto aveva cominciato a ronzare, cercando con crescente apprensione una risposta alla domanda sul cosa raccontare alla sua protetta. Chiudendo gli occhi sul suo cuscino, e riscoprendosi ancora immerso nel petto di Elena aveva deciso di lasciare al mattino seguente la spinosa questione. Si sentiva sporco in fondo, ma la contentezza era ancora così luminosa da rendere ogni macchia praticamente invisibile. Quando però si trovò a fronteggiare la causa di tutte le sue apprensioni, si scoprì nuovamente a tremare. Accennò balbettando a una ragazza e Beatrice, incalzandolo: "Da che era travestita Elena? Scommetto che era un'infermierina premurosa, con tanto di mini camice aderente e giarrettiera in vista..."
Luca colse una stizza nervosa attraversare il volto di lei. Ancora più imbambolato, avvertì affondare nello stomaco un morso rabbioso. "Non mi piace che tu parli di lei così. E'...è una persona fantastica."
Lo sguardo torvo e piccato di lui fu ribattuto da una mezza risata che sapeva tanto di ironia "Allora sposatela se è tanto splendida...si vede lontano un miglio che sbava per te, quella vuole divertirsi e basta! Chiedile di uscire! Vedrai, dopo due minuti te la dà!"
Le parole caddero come un masso nel fiume di pensieri che affollavano il ragazzo; delle migliaia di onde che si alzarono increspandosi, fu ancora la rabbia ad essere la più veloce: "Non ti permettere di parlare così di lei, non la conosci! Sei ingiusta! Sei cattiva! Io ero venuto qui spinto dal desiderio di condividere con te le cose belle che mi accadono, come ho fatto fin da bambino...ma adesso credo che se c'è qualcosa di infantile in tutto questo, quella sei tu." Nell'attimo esatto in cui pronunciò queste parole, sentì un vetro spaccarsi in mille schegge affilate sotto la maglietta, in mezzo ai polmoni...fissando lo sguardo sbarrato e incredulo di lei, non riuscì comunque a frenare le parole che ormai sgorgavano a fiotti dalla ferita aperta, da qualche parte là sotto. "Ieri notte ci siamo baciati, poi siamo stati a casa sua…E' stato bellissimo. Non avevo mai provato un'emozione tanto forte in tutta la mia vita."
Lentamente le labbra rosa e lucenti di Beatrice si piegarono ai lati delle guance, adesso tutte rosse; presero a tremare mentre due lacrime ne segnavano la superficie finemente maculata. "Vattene via Lu. Vai via." La porta si chiuse con un tonfo tremendo.

Il telefono squillava ancora tra le mani di Luca che fissava incredulo il nome sullo schermo. Blondie. Gli ultimi giorni erano stati per lui un'assoluta novità. Nell'anomalo silenzio dei suoi pomeriggi, mille volte aveva preso il cellulare in mano per chiamare la sua compagna storica e scusarsi...ma altrettante aveva sentito pulsare rabbiosa l'arteria al lato della fronte. Non poteva accettare che la protagonista della sua vita fosse stata così stronza. La stizza per quelle parole maligne - seppur non così infondate - annebbiava ogni altro pensiero razionale. Non si capacitava di come quella bocca perfettamente cesellata avesse potuto essere tanto crudele nel descrivere la sorgente della sua recente felicità – o che comunque non sapeva definire altrimenti. Da allora aveva continuato a lavare ogni suo dolore e rimorso con le gocce di gioia liquida che la compagnia di Elena stillava. Poi premette il tasto verde. Un singhiozzio lo sorprese al ricevitore: "Ciao Lu...ho lasciato Andrea."

Quando aprì la porta di casa, Luca si trovò davanti una visione: i capelli sconvolti e bagnati balenavano come saette d'oro nel riflesso bianco del cielo nebuloso. La pelle lattea si confondeva tra le nuvole, nell'abbraccio di un lungo maglione di lana color zaffiro a trama grossa, che pesante di pioggia le stringeva le spalle tremolanti. Le gambe sottili sbattevano freneticamente a terra per scacciare i brividi del freddo. Gli occhi arrossati dal pianto sembravano essersi appena dischiusi da una notte senza sonno, e timidi investigavano la soglia della casa nella ricerca di un riparo, mentre le lacrime si mischiavano all'acqua che cadeva - provvidenziale. Un sorriso triste accolse il cigolio del portone, inonando Luca con la sua tenerezza magica.
Una volta dentro, il ragazzo raccolse in silenzio un grande asciugamano, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quella creatura così fragilmente splendida. Asciugatasi alla bene e meglio, Beatrice notò che nel corridoio non aleggiava il familiare profumo di pizza, che segretamente aveva sognato di assaporare. Proprio nel mezzo di questi pensieri, due braccia amiche ma sconosciute le avvolsero tiepidamente il petto da dietro la testa. I due ragazzi chiusero gli occhi: un velo di lacrime tornava ad appannare la vista di Beatrice, mentre le fredde gocce intrappolate nelle sue vesti, lavavano via tutta la rabbia e la tristezza accumulate sulle iridi celesti di Luca. Uniti in questa morsa silenziosa, posarono immobili in un abbraccio senza tempo: giovani Apollo e Dafne, stremati dalla corsa bramosa, trovavano finalmente tregua anche se solo per un istante. Bastò un respiro infatti perché il cuore ricominciasse a bussare forte contro la schiena bagnata di lei.

Come avvolta nelle ali del suo angelo, Beatrice piangeva senza sapere il perché. Cullata in quella coperta di piume, tante volte aveva trovato la quiete…adesso però si trovava vestita di brividi.

Fine quarta parte