16 marzo 2015

La città dei pini volanti




Il vento mi ha spazzato via il ventisettesimo compleanno, mezza macchina e tre pini di quarant'anni. Le radici divelte hanno spaccato il giardino, aprendo voragini nel terreno abbastanza grandi da inghiottirmi con tutto il cappello. Eppure quei tronchi stranamente orizzontali non sembrano tristi colla loro chioma aguzza e sempreverde. La superficie del prato poi, sollevata in zolle simili a colline, non aveva mai avuto un profilo tanto interessante. Certo, nessuno potrà più giocarci a calcio o a bandierina...ma sono passati talmente tanti anni dal'ultima volta che è successo, che in fondo il danno è solo teorico. Forse è solo l'idea di non poterlo fare più che disturba.
Abbiamo un bisogno innato di serenità e dovremmo sforzarci di appagarlo con pensieri dolci.

Il primo che mi viene in mente è che, per una volta, anche i pini abbiano provato a volare. Il pino in effetti non ha un fusto adatto al volo, la sua struttura massiccia non lo rende adatto al decollo e tanto meno all'atterraggio. Ma le conifere - si sa - sono alberi testardi, e come tali se si mettono in testa qualcosa, non è semplice far loro cambiare idea. Tutti quanti prima o poi finiamo col sentire il prurito di dimostrare di non essere messi lì solo a fare ombra al sole. Se a questo aggiungete il consiglio malizioso di un vento forte e nuovo, la frittata è fatta. Potrebbe anche essere, quindi, che nel cervello di un giovane albero - tanto ispirato quanto poco avveduto - sia preso il ruzzo di provare a spiccare il più goffo dei salti. Chiamatelo pazzo oppure geniale, ma il tonfo che ha prodotto non è passato inosservato e come ogni novità ha fatto proseliti: ecco che in un momento frotte di piante si precipitavano ad imitare il grande volo. Un pino particolarmente calcolatore prendeva la rincorsa ondeggiando prima di qua e poi di là, assieme a lui c'era quello frettoloso che spingeva i vicini, poco più in là uno un po' sbadato finì coll'appoggiarsi a un tetto, mentre uno bastardo decise che la traiettoria migliore passava sopra la macchinetta parcheggiata vicino. Comunque decidessero di gettarsi, il risultato non fu che uno soltanto, e cioè una città ricoperta da tonnellate di legno fracassate a terra assieme a tegole e mattonelle. Uno spettacolo che confonde e disorienta, un po' come l'arte contemporanea. A noi adesso non resta altro che guardare quei fusti sdraiati, colle radici per aria, e chiederci se tutto questo abbia un senso davvero o se siamo noi a non saperlo cogliere.

Il ciclone, quando arriva, 'un t'avverte. Passa, piglia e porta via. E a te 'un ti resta che rimanere lì, bono, bono a guardare e a capire che se 'un fosse passato, sarebbe stato parecchio, ma parecchio peggio.


A me, però, fa sentire solo sradicato.

1 marzo 2015

Puzzled 3.0 - Mancanze.



In questa settimana senza lavoro – a causa di un piccolo ma fastidioso intervento che mi ha fatto vincere 10 punti di sutura appena sopra l’inguine – è facile sentire la mancanza. Di cosa? Dei jeans, tanto per cominciare, perché la ferita duole sotto la presa dei pantaloni, nonché degli slip. Che altro? Beh sono qui fermo a letto – il vecchio lettone di casa Biagini, dove non dormivo da non so neppure io quando - e non ho nessuno da chiamare o il coraggio di farlo. Temo che questo stato di prostrazione fisica mi abbia reso fastidioso all'esistenza altrui.
E tutto questo pensare, dicevo, mi fa sentire le mancanze.

Io credo che una persona sola sia in grado di fare un numero molto limitato di esperienze. Per fare un paragone artistico, puoi passare tutta la vita sforzandoti di creare il tuo verde più brillante e il tuo celeste migliore, ma dovresti imparare quasi subito che - da soli - non fanno quasi mai una primavera. I colori degli altri dovrebbero essere visti come estensioni della tua tavolozza, un punto di arancio che non conoscevi, una sfumatura di lilla che non credevi poter realizzare. Certo, non tutti i quadri che verranno fuori saranno dei Monet o dei Van  Gogh, ma mischiando e sperimentando qualche tramonto decente ogni tanto verrà fuori.



Un gran giro di parole per dire due cose semplici: A) non si può vivere da soli, e B) non esiste qualcuno che ci completi. Eh no, perché le sfumature che puoi creare assieme alle altre persone è letteralmente infinito. Non voglio però essere frainteso, e quindi userò termini un pelo più prosaici. Non credo che il miglior modo di vivere sia trombare col pianeta intero tentando di completare le infinite combinazioni di razze e perversioni possibili, ma neppure che una persona possa ritenersi pienamente realizzata in un’altra soltanto, né dovrebbe aspirare a farlo. Questo vale per l’amore, l’amicizia e tutto il resto a pensarci bene. E ve lo dico perché quelli che mi mancano davvero oggi sono tutti i colori che ho creato nella mia vita passata. Mi sento solo? Può essere.

Ci sono legami che si creano senza scegliere. La famiglia, per esempio, così come il vicino di casa rompicoglioni o il collega cialtrone. Ce ne sono altri invece che senza scegliere, si sciolgono. Ho quasi 27 anni, e penso che il numero di persone che ho perso lungo la strada, sia maggiore di quello che sono riuscito a tenere qui con me. Sarà razionale, ma non è molto allegro come pensiero.

Una di quelle cose di cui non crederesti mai di sentire la mancanza quando cambi città, è il senso di disagio e goffaggine che pochissime creature al mondo ti instillano dentro le spalle e le ginocchia, come piccoli aghi che ti pungono sul vivo. C'era qualcuno così a Firenze, ed è inutile dire che non sia mai riuscito a fare niente di rimarchevole in loro presenza - se non presentare timide e idiote versioni di me stesso.
Chiamatelo avere una cotta o un debole per chicchessia...fatto sta che un giorno ti alzi e realizzi che non capiterà più di incrociarle per sbaglio ad un aperitivo o in fila alla Conad. E capisci anche che nonostante anni di silenzi, di attese e di rinunce, da qualche parte in fondo al cervello avevi sempre pensato che prima o poi sarebbe arrivata l'occasione giusta.
Non è successo, e forse quello che più ti brucia non è tanto il fallimento di questa ricerca, quanto il non aver più nessuno da cercare con lo sguardo mentre scegli il dentrificio. Capisci che più di quegli occhi in particolare, era quello che provavi sotto il loro sguardo, anche se invisibile dall'esterno e sostanzialmente spiacevole, ad essere speciale. Era una parte di te, di quel te che vorresti essere, che vorresti provare a realizzare e che devi consolare o premiare quando chiudi gli occhi sul cuscino. Era una parte di te, e non c'è più.

C'è un film molto bello, si chiama "Adaptation" - italianizzato come "Il ladro di orchidee" - che parla proprio di come vivere non coincida quasi mai col sentirsi vivere. La pellicola è autobiografica, e tratta di Charles Kaufman, uno sceneggiatore che non riesce a scrivere il film che voi stessi state guardando. Sembra molto complicato, ma non lo è.

Charlie Kaufman: There was this time in high school. I was watching you out the library window. You were talking to Sarah Marsh.
Donald Kaufman: Oh, God. I was so in love with her.
Charlie Kaufman: I know. And you were flirting with her. And she was being really sweet to you.
Donald Kaufman: I remember that.
Charlie Kaufman: Then, when you walked away, she started making fun of you with Kim Canetti. And it was like they were laughing at *me*. You didn't know at all. You seemed so happy.
Donald Kaufman: I knew. I heard them.
Charlie Kaufman: How come you looked so happy?
Donald Kaufman: I loved Sarah, Charles. It was mine, that love. I owned it. Even Sarah didn't have the right to take it away. I can love whoever I want.
Charlie Kaufman: But she thought you were pathetic.
Donald Kaufman: That was her business, not mine. You are what you love, not what loves you. That's what I decided a long time ago.



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