18 aprile 2014

La grande vuotezza

Se il vuoto che ti riempie
muta nobili vocazioni
in trite evasioni scempie,
ricercando ispirazioni,
nella musica, perditi;
sperando che la melodia
risvegli pensieri sbiaditi
nelle stagioni di amnesia.
Imprigionarli tu non puoi
come la mano con il fumo,
sol coi polmoni, se vuoi,
riassaporane il profumo.

Costruiamo su cadaveri
vissuti sul palcoscenico
della vita, fino a ieri.

Insegui sempre l'autentico:
coprendosi di squallore,
andando di bocca in bocca,
non muterà mai di colore.

Niente realmente ti tocca,
non è alle idee altrui,
che devi della coerenza,
ma a te stesso solamente:
bisogna che ti riabitui
al pensier, all'irriverenza,
e al viver unicamente.

Ho passato gli ultimi due giorni più o meno in ciabatte e pantaloncini, senza mai mettere il naso fuori di casa tranne che per comprare le sigarette. Sì, ho ricominciato a fumare - come se avessi mai davvero smesso. E allora mi chiedo io, quali sono le grandi idee cui dovrei la mia coerenza in questi giorni? Sono stanco, non dormo bene, come sempre. Un tempo credevo che fosse colpa dell'ansia - quella di ogni studente di medicina - esami, scadenze e menate varie. Poi ho creduto dipendesse dalla situazione in casa, i soliti casini, coi loro alti e bassi. Adesso che sono un felice essere umano inserito in una rete di relazioni sociali, comincio a sospettare che il  mio corpo ritenga ci sia qualcosa di meglio da fare che dormire. La domanda quindi forse è un'altra. Cosa fare oggi?
Ho questo bisogno costante di parlare, di correre, di conoscere persone, di scrivere, di studiare, di lavorare, di divertirmi...credo che quest'irrequietezza di base sia legata a un bisogno segreto - poco originale, peraltro. La necessità di non sentire. Che cosa? Il niente, l'inutilità di questa e quella cosa che facciamo, l'inutilità di un po' tutto, in fondo. Comincio a credere che, in fondo, noi vogliamo avere da fare. Gli obblighi e le scadenze ci spingono fuori di casa, ad usare il cervello e le mani. Il famoso otium latino, non è roba da tutti, sicuramente non da me. Direi che è un po' triste, ma tanto queste sono chiacchiere.

Forse però il niente che sento e da cui sto cercando di fuggire è qualcosa un po' più profondo; e non saprei dire in quale misura esso dipenda dal non riuscire a trovare niente per cui valga la pena di spaccarmi il culo, e quanto invece dal non avere le palle di lottare per quello che credo di volere.

Basta lamenti, questi sì, che non servono a un cazzo.
Ho visto la "Grande Bellezza": mi è piaciuto moltissimo. L'ho trovato spietato e adorabile. Jep Gambardella - Tony Servillo - è una creatura assolutamente affascinante, nonostante il fare lezioso e la vacuità della sua esistenza. Una contraddizione vivente, al limite del surreale, e per questo del tutto irresistibile...un po' come tutta quella massa di cialtroni da due soldi che ci vengono presentati nelle due ore di feste, palazzi e giardini: inizi col disprezzarli, poi ne hai pietà e quindi finisci per capirli. La grande bellezza forse è un po' il niente di cui parlavo prima, solo che Sorrentino lo sa spiegare meglio. Molto meglio. Non ho i mezzi tecnici per descrivere in maniera decorosa le riprese del film, in ogni caso ci tengo a dire che ci sono scene del film che sono visioni di una perfezione assoluta.


Capisco perché abbia vinto l'oscar: cosa può piacere agli americani più del casino, dei soldi e della fessa? L'altro giorno mi è capitato di vedere l'Mtv Movie Awards...la sola deduzione logica che se ne può trarre è che l'unica cosa più figa di una bella topona coperta di gioielli e seminuda che fa battutine sessuali su un palco davanti a milioni di giovani coglioni, sono due belle topone seminude che ballano. Sono un popolo di selvaggi, diciamocelo - scusate il razzismo. Noi non siamo molto meglio, però per fortuna abbiamo Roma che ci ricorda sempre che cos'è bello davvero.

13 aprile 2014

Il Battesimo del Fuoco

12 Aprile 2014, una data che difficilmente dimenticherò.


Ore 19.00 - fresco di laurea e abilitazione, colla borsa medica che ancora profuma di cuoio e il cuore pieno di speranze, mi avvio su per le intrepide stradine della montagna pistoiese, alla ricerca della fantomatica sede di Guardia Medica di Marliana (PT). Fantomatica, in quanto abbastanza rinomata nel settore per la qualità del sonno delle notti ivi trascorse.

Ore 19.55 – correndo a 100 km/h dopo aver più e più volte sbagliato direzione, giungo infine all’agognata sede. Qui mi attende una dottoressa veterana che tutta sorridente mi mostra le amenità della struttura e m’introduce alle probabili telefonate della notte, prima di congedarsi e lasciarmi tutto solo tra caprioli e lupi (e senza una tacca di segnale nel cellulare).

Ore 21.10 – prima telefonata preannunciata, consulenza telefonica.

Ore 22.15 – seconda telefonata preannunciata, nuova consulenza telefonica.

Ore 22.20 – ripetizione della prima telefonata, ancora consulenza telefonica.

Ore 23.10 fino alle 00.30 – il sonno mi assale, ma ritenendo mal costume dormire la prima notte sul posto di guardia - senza considerare l’aspetto non esattamente invitante del materasso presente - mi metto alla tv. Il commissario Maigret è veramente molto lento. Troppo lento.

Ore 01.30 – mi sveglia una telefonata da parte del 118. Nella comunità di profughi di Lampedusa accolta a Marliana (eh??!!) sembra essere scoppiata un’epidemia di dissenteria (cosa??!!). Tuttavia, prima di inviare svariate ambulanze sul posto, è richiesto l’intervento di un medico per valutare l’effettiva necessità di ricoverare i pazienti. Vengo avvisato della possibile barriera linguistica.

Ore 01.35 – comincio a realizzare di essere io quel medico.

Ore 01.40 fino alle 02.00 – mi avvio nel labirinto di tornanti, salutando coi fari due simpatici cerbiatti che balzellano sulla strada. Bella la natura. Raggiungo in auto l’hotel in questione.

Ore 02.05 – sono accolto dalla polizia e dalla municipale, intervenute sul posto, e vengo introdotto agli albergatori come “il dottore”. Mi viene raccontata la storia dei profughi e mi viene detto che due mediatori culturali sono già stati contattati per aiutarmi nella traduzione.

Ore 02.15 fino alle 03.40 – incontro i ragazzi ghanesi, parlano un inglese decente (qualità non esattamente estendibile ai mediatori), mi raccontano la loro storia, di cui non posso parlare. Comincio a visitare il primo ragazzo. Dopo la diffidenza iniziale, a turno gli altri si sottopongono alla visita volontariamente, mentre i restanti osservano e ridacchiano. Un ragazzo mi aiuta passandomi via via lo sfigmomanometro, lo stetoscopio e la pila. Alla richiesta di seguire la punta della penna cogli occhi o di gonfiare le gote, immancabilmente ci scappa la risata generale. I parametri vitali sono ottimali, non ci sono segni di disidratazione o di infezione acuta in corso. In tutta umiltà ritengo di non dover ricoverare nessuno, raccomandandomi di chiamare un vero medico se i disturbi peggiorassero il giorno seguente (non posso dilungarmi ulteriormente sui dati clinici).

Ore 03.50 – “God Bless You” (sorrido anche solo a scriverlo).

Ore 04.00 – realizzo che non ho idea di come gestire la burocrazia di pazienti profughi - ovviamente non cittadini toscani - e dotati di un’esenzione speciale. A tal riguardo, ricevo delucidazioni telefoniche talmente brillanti che decido essere più saggio il chiedere alla collega il mattino seguente.

Ore 04.30 – tornato alla sede, crollo sul meraviglioso materasso a molle.

Ore 08.00 – Coll’aiuto della collega completo anche la parte burocratica della mia avventura personale. Un po' ironica e un po' incredula mi dice che a Marliana la notte si dorme sempre. “Tu ha’ fatto un bel battesimo del foco”.

6 aprile 2014

Mi chiamo Biagio

“Quando scrivi ancora qualcosa?” Suona strano anche a me, ma è una domanda che mi viene rivolta abbastanza spesso. "Quando avrò qualcosa da dire". A dirla tutta però, i pensieri non mancano, seppur non mi sforzi di trascriverli. La risposta vera è quindi un po' più complessa e noiosa, e ve la risparmio; vi dico solo che parlo troppo per poi avere anche voglia di buttar giù due righe.



È passato molto tempo dal mio ritorno da Praga. Forse due anni possono non sembrare molti, ma quando vivi in centro a Firenze gomito a gomito con gente di tutto il mondo, 730 giorni si traducono in altrettanti volti che non riesci a rivedere nella memoria, nomi che hai scordato e giornate che non sai più raccontare. I “compagni monoporzione” - per parafrasare Fight Club – vanno e vengono con l’alternarsi delle stagioni e dei semestri, scanditi dalle immancabili feste universitarie, le sessioni di esami, i concerti e via dicendo. Lo spettacolo si ripete uguale e divertente, seppur con nuovi attori.
 S’inizia col non accettare più amicizie su Facebook e si finisce col provare una sottile insofferenza verso l’entusiasmo e il desiderio di farsi conoscere delle masse di stranieri che abitano il tuo soggiorno o l’altra parte del tavolo nel locale.

Mi ricordo bene come mi sentivo nel Settembre 2011 con un biglietto per la Repubblica Ceca in una mano e il cappello nell’altra: immaginate di avere la possibilità di lasciarsi alle spalle ciò che fate, dove vivete - praticamente chi siete – per poter riscrivere da capo la vostra vita, coi soldi dell’Unione Europea e circondato da coetanei nella vostra identica situazione. Un Erasmus è per definizione una persona di buon umore e disposizione, e questo perché conosce esattamente quanto tempo gli rimane e non vuole passarlo incastrato nelle stupide logiche sociali di tutti i giorni. Rimanere antipatico a qualcuno richiede troppo impegno, non vale neppure la pena di rispondere alle scortesie. Qualsiasi serata del cazzo si illumina riscoprendo l’eterna verità della frase “se non lo faccio adesso, non lo farò mai più”, e così anche il metallarone si mette la camicia bianca per andare in discoteca e il fighetto si ritrova a fare campeggio trai boschi o a bere una birraccia nella peggiore delle bettole infestate di fumo e vichinghi.
Io nella fattispecie, affascinato dalle bionde e algide Praghesi, partii col chiaro scopo di trombarmele tutte (anche se poi non passò neanche un mese prima che m’innamorassi come una pera cotta di un’italiana). Anche questo rientra nell’effetto Erasmus©, che ha il potere di tirare fuori il lato più positivo dalle persone. A onor di cronaca è importante citare anche altri esemplari di Erasmus che infestano le città. Ci sono, ad esempio, i pesci fuor d’acqua, che non si sanno adattare un briciolo al clima/cibo/orario/lingua, e che trascorrono le serate su Skype lamentandosi di quanto la pomarola fatta con i pomodori tedeschi sia sciapa; i miei preferiti sono invece i cagacazzo, quelli che hanno sviluppato l’incredibile superpotere di trovare (e spiegare a tutti i presenti) almeno 50 buoni motivi per cui nel loro paese di origine le serate sono più fighe, le ragazze più facili, la musica più bella etc etc. Insomma, ogni gruppo Erasmus ha le sue pecore nere, come tutte le buone famiglie.

Perché vi racconto ora tutto questo? Beh perché adesso vivo l’altro lato della medaglia, the dark side of the Erasmus - per così dire. L’assenza di un’occupazione fissa, l’appartamento nel centro della vita notturna fiorentina e una splendida coinquilina brasiliana sono tre motivi più che sufficienti per avere sempre nuove persone che gironzolano per casa e che si stupiscono di conoscere un medico allegro e colla barba rossa.
Non riesco più a stringere legami, e la verità è che comincio a pensare di non volerlo neanche più fare. Sono fortunato a poter contare su due mani gli amici veri, che rimangono nonostante le nostre vite non si incrocino mai, ma al tempo stesso sono una persona sostanzialmente sola, alle prese coll'arduo compito di doversi ripresentare da capo ogni sera. “Ciao, mi chiamo Biagio”.

Alla mia festa di laurea fiorentina in appartamento conoscevo meno della metà delle 150 persone che ballavano la mia musica e calpestavano il mio parquet. C’è poi una ventina di persone che ogni anno comincia a frequentare assiduamente casa mia: mi raccontano chi sono e cosa vogliono fare nella vita; mi parlano dei loro amori, se credono in Dio, cosa trovano di assurdo dell’Italia; s’innamorano, si baciano, vanno a letto insieme, si ubriacano…insomma, vivono. Poi vanno via, per un po’ scrivono, altri fanno fotografie, i più si deprimono. Io resto sempre qui, a parlare delle donne e del vino, degli anni passati in prima linea sol cappello in testa e l’allegria nello stomaco. Ho sempre un pubblico nuovo che per cortesia o per l’effetto Erasmus©, non storce mai la bocca quando sono io a dare la mia interpretazione dei massimi sistemi, di come gira il mondo e del perché “la vita è bella nonostante il mondo sia una merda”.
“È molto più facile portarsi a letto una persona che conoscerla davvero”, ormai in questa battuta io ci sguazzo senza tanti pensieri o remore. Forse avrei bisogno di un po’ più di serietà e spiritualità…ma la verità è che per queste cose c’è sempre tempo, e soprattutto non interessano a nessuno tranne che al diretto interessato, e cioè, a me. La conversazione è molto sopravvalutata, e se uno deve aprire bocca per dire le solite sacrosante banalità privo della minima convinzione, allora farebbe meglio a bere una birra e fare il cretino. Se notate una vena di cinismo o di rassegnazione nelle mie parole, vi prego però di non confonderle per nichilismo o depressione. Le regole del gioco sono queste, vanno accettate e se possibile imparare ad aggirarle. Il difficile è essere contenti nonostante questo, ma alla fine il provare ad esserlo è l’unica cosa per cui vale davvero la pena impegnarsi.
Dal mio canto l’unica cosa buona che sono riuscito a fare in questi mesi è di non aver preso in giro nessuno ed essere sincero, al limite della spietatezza. Dire la verità è la difesa migliore da ogni cazzata grossa che puoi fare verso te stesso. Riscrivendo un pelo l’imperativo categorico kantiano, direi che sto cercando di vivere senza fare qualcosa di cui poi potrei aver vergogna a parlarne. Voglio non avere segreti. Inutile dire che spesso vengo preso per un mezzo matto o il più contorto dei bugiardi. Il fatto è che nella mia condizione di amicone di tutti – e di nessuno – pochissimi prestano attenzione a quello che dico, e a me va bene così: purtroppo o per fortuna le persone che valgono qualcosa non crescono sugli alberi e quelle di cui mi importa davvero sono ancora meno. È a me stesso e basta che devo la mia coerenza, e ci vuole un bel fegato per farlo - anche solo per digerire tutto l’alcol che questo comporta.

Insomma, credo di avervi spiegato perché non ho voglia di scrivere - anche se avevo detto che ve lo avrei risparmiato - ma come sempre non sono riuscito a starmene zitto.

Voglio essere chiaro, a me tutto questo piace, o comunque sia è il meglio che riesco a fareNon so per quanto tempo durerà, e la cosa strana è che in Via Verdi 13 sono l’unico a non saperlo.