"Primavera non bussa, lei entra sicura
Come il fumo lei penetra in ogni fessura
Ha le labbra di carne, i capelli di grano
Che paura, che voglia che ti prenda per mano
Che paura, che voglia che ti porti lontano"
Il mattino ha l'oro in bocca e io la barba sbavata di dentifricio. Al fluoro mentolato segue l'amarezza del caffè stemperata dalla dolcezza di uvetta e sfoglia, ed infine sublimata dal calore di una nuvola di fumo. Il resto della giornata è scandita da parole masticate troppe volte per poterne ancora apprezzare il sapore. Si scopra il torace. Si sdrai sul lettino. Faccia dei respironi profondi. Tossisca. Formule magiche ripetute religiosamente, riempiendo i silenzi della mente ma senza che nessun prodigio si avveri.
Passi troppo poco tempo a farti domande e ancora meno a cercarne le risposte. Forse non ne senti più il bisogno. Forse dai troppa importanza ai minuti che avanzano al lavoro - quelli in cui non stai cercando del cibo o ricaricando le batterie - per sprecarli ad inseguire grilli per la testa. Forse non sei più felice di un tempo, hai semplicemente smesso di chiedertelo perso nell'inverno di un ospedale qualsiasi.
La cittadella dei malati dorme sicura dietro la severa facciata razionalista, mentre tu metti in letargo desideri e voluttà, ormai ipnotizzato dalla ninna-nanna fatta di bip e colpi di tosse.
Intanto però il verde si arrampica furtivo sulle mura di marmo bianco, cullato dalle tiepide piogge di Aprile. D'un tratto la fioritura esplode dalle finestre senza maniglie, in un arcobaleno di vetri rotti e profumi che intasano i condizionatori e i respiratori pieni di amuchina. Una tempesta di petali di geranio arrossa le gote anemiche, come leccate di una leonessa irruenta e materna. Il sole filtra la nebbia in una salva di colori che ferisce i pensieri mollicci e ammuffiti .
La battaglia si consuma in un lampo, mietendo stuoli di autoconvinzioni e sicurezze impolverate.
Tu rimani lì, a contare le vittime a tentoni, col fiato corto e le orecchie che fischiano, abbagliato da tanta bellezza. La vampata di calore scioglie in un momento i nodi alla gola e riaccende la fucina dei sogni. Ti risvegli nei panni del poeta da quattro soldi, con qualche capello in meno e tanta voglia di continuare a scrivere la tua novella.
L'accenno di abbronzatura e il sorriso sulle labbra non tradiscono però la ferita che si apre poco più sotto. Cercando di tradurre i pensieri in versi, sei inciampato in una di quelle parole che non fa rima con nessun'altra. Basta un solo verso sbagliato a rovinare una poesia. Una sirena sgraziata si alza, distorcendo la dolcezza della melodia appena dischiusa dal sole.
Il cuore perde un colpo, poi un secondo e infine un terzo. Non sa più tenere il ritmo di tanta vita tutta assieme. Nel breve silenzio che divide due battiti, il suono si fa largo. Sgradevole, cacofonico, dissonante e sfortunatamente familiare.
Sono amareggiato e un po' spaventato. La cosa è diventata ingestibile da quando mi sono trasferito a Milano, dove mi trovo tutt'ora per un periodo di formazione.
Dio quanto volevo fuggire da Pisa. Ed ora, ironia della sorte, proprio lì devo tornare per cercare di guarire.